Appalti

Semplificazioni: regolamento appalti, bandi e concorsi "liberi" dal rischio di abuso d'ufficio

Con la riforma delineata dal Dl 76/2020 la contestazione del reato è possibile solo per violazioni a norme di legge

di Francesco Tassone e Antonio Mazzone

La riforma della fattispecie di abuso d'ufficio introdotta con il Dl semplificazioni (Dl 76/2020) fa seguito alle riforme del 1990 e del 1997 ed ha alcuni profili di interpretazione autentica della norma di cui all'art. 323 c. p. delineata con la l. 234/1997, cioè il reato di abuso d'ufficio.

L'intenzione del legislatore (e anche la lettera della legge) del 1997 era quella di meglio definire gli elementi costitutivi dell'abuso d'ufficio, limitando la sua operatività alle ipotesi di "violazione di norme di legge o di regolamento" (oltreché di mancata ottemperanza all'obbligo di astensione), con espunzione dall'area del penalmente rilevante di ciò che attiene al vizio amministrativo dell'eccesso di potere. Violazione di "norme di legge o di regolamento" che dovevano ritenersi consistere nell'inottemperanza di regole e non di principi.

Attraverso il riferimento alla disposizione dell'art. 97 Cost., nella parte in cui fa riferimento al buon andamento e all'imparzialità della Pa, si è invece ritenuto, in sede di applicazione, che nel concetto di norme di legge andassero ricompresi, anche, i principi (melius, i beni) del buon andamento e dell'imparzialità della Pa, anche in mancanza di una specifica norma di legge che ne specificasse e concretizzasse il contenuto in termini di puntuale regola di condotta.

Anche a correzione di questa linea applicativa interviene il decreto Semplificazioni che definisce ulteriormente la tipicità della norma di cui all'art. 323 c.p., sostituendo il riferimento a "norme di legge o di regolamento" con il riferimento a "specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità".

Innanzitutto va evidenziato che l'intervento di riforma restituisce alla previsione dei beni del buon andamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione contenuta nell'art. 97 Cost. il ruolo che le spetta: che è quello di descrivere i beni la cui lesione è necessaria affinché una condotta conforme al tipo divenga penalmente rilevante.

Non essendo sufficiente per l'integrazione del reato di abuso d'ufficio la violazione "di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità", ma essendo necessario (oltreché il ricorrere dell'elemento soggettivo richiesto) che tale violazione si traduca concretamente e significativamente in un'offesa al bene del buon andamento o a quello dell'imparzialità della pubblica amministrazione.

La nuova norma di abuso d'ufficio da un lato limita la tutela penale alle ipotesi dove, forse, è meno necessaria, dall'altro elimina i "regolamenti" dal novero delle fonti la cui violazione è elemento costitutivo del reato.

Infatti, la nuova norma è anch'essa imperniata sulla violazione di legge o di atti aventi forza di legge (sia pure meglio delineata sul piano della tipicità), la cui integrazione, però, trova già ampia tutela nell'ordinamento sul piano giurisdizionale amministrativo anche in ordine alla posizione del soggetto privato che si ritenga leso: lasciando essa, invece, nuovamente fuori dalla previsione di interventi tesi a garantire la legalità dell'azione della Pa proprio quell'area caratterizzata dalla discrezionalità amministrativa o tecnica della Pa, che, riguardando il merito dell'azione amministrativa, consente minori strumenti di intervento sul piano giurisdizionale amministrativo al soggetto privato che si ritenga leso.

Area che, invece, su un piano ovviamente diverso dalla sovrapposizione della valutazione giudiziaria a quella amministrativa, richiederebbe una previsione normativa penale diretta a reprimere i casi di sicuro e significativo stravolgimento funzionale e di certa e rilevante privatizzazione dell'interesse pubblico da parte del soggetto che opera per conto della pubblica amministrazione.

Il riferimento, inoltre, alla condizione che "non residuino margini di discrezionalità", a parte la non facile delineazione sul piano proprio della tipicità non essendo semplice definire il concetto di "margine" e verificare se, sia pure in via indiretta, una previsione amministrativa di un'attività vincolata non consenta, comunque, alcuno spazio valutativo, conduce ad un'estrema restrizione degli spazi di applicazione della nuova norma, così da neutralizzarne sostanzialmente gli effetti sul piano politico criminale e della prevenzione: si realizzerà, probabilmente, quanto è accaduto con la riforma del 1990 della fattispecie di cui all'art. 328 c.p. (rifiuto di atti di ufficio e omissione), che nel ridurre l'ambito di applicazione della norma ha condotto all'espansione del riferimento al reato di abuso d'ufficio mediante omissione.

L'espunzione del riferimento ai "regolamenti" dalla fattispecie incriminatrice sottrae all'area del penalmente rilevante violazioni, anche gravi, di discipline contenute proprio in fonti regolamentari che regolano l'esercizio dei pubblici poteri e dei servizi pubblici, alla luce dell'ampio processo di delegificazione in atto da tempo nel nostro ordinamento.

Uno dei settori in cui tale modifica legislativa rischia di avere riflessi importanti è quello degli appalti, caratterizzato in misura preponderante dall'esercizio di poteri discrezionali.
Sul punto, l'art. 216, comma 27-octies, del vigente codice dei contratti pubblici (Dlgs. n. 50/2016) aggiunto ad opera del decreto sblocca-cantieri (Dl n. 32/2019) demanda proprio ad un emanando regolamento unico la disciplina esecutiva, integrativa e attuativa di tante parti importanti del codice stesso, tra cui quella relativa alle procedure di affidamento e realizzazione dei contratti di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie comunitarie.

A ciò si aggiunga che lo stesso Dl. n. 76/2000 ha introdotto una riforma in materia di appalti pubblici diretta in una serie di ipotesi a svincolare le scelte della Pa dalle procedure di affidamento.

In tema di procedure selettive ad evidenza pubblica (ma il medesimo assunto è sicuramente applicabile anche alle procedure concorsuali e/o di reclutamento di personale) l'intera attività valutativa è fortemente connotata da amplissimi margini di discrezionalità tecnica delle commissioni giudicatrici ed i relativi criteri e modalità di formazione dei giudizi sono contenute nei singoli bandi (o comunque nella lex specialis di gara o concorso) e/o in atti di natura regolamentare, i quali non rientrano più nella c.d. condotta tipica.

Da ciò ne consegue che una fattispecie di "abuso d'ufficio" risulta, in tali ambiti, ormai difficilmente configurabile.

Si stanno, quindi, creando dei vuoti di tutela sia in relazione alle attività discrezionali della Pa, sia in relazione alle attività della Pa disciplinate da fonti regolamentari, sia in relazione alle attività della Pa che, implicanti come tali la gestione di interessi pubblici, siano svolte mediante modelli "deproceduralizzati". In un sistema complessivo in cui, venuti meno i pareri obbligatori emessi da un funzionario non dipendente dalla stessa Pa deliberante (com'era, ad es., il segretario comunale, quando era funzionario del Ministero dell'Interno) e il successivo controllo gerarchico-funzionale esercitato da un organo indipendente (com'era il soppresso Coreco), appare, ora, privo di ogni contrappeso.

Né vale obiettare che in tal modo si garantisce l'efficienza della Pa: perché in ogni riforma che attenga all'azione della pubblica amministrazione deve tenersi conto che nel settore privato la discrezionalità delle scelte operative è bilanciata dal rischio d'impresa, che ricade economicamente su chi (imprenditore) assume le decisioni; mentre nel settore pubblico tale bilanciamento non avviene, perché il rischio d'impresa (e, cioè, le conseguenze economiche di scelte illegali o sbagliate) ricade sulla collettività.

Il depotenziamento ulteriore della fattispecie di cui all'art. 323 c.p. (con conseguente venir meno della sua funzione di norma "di chiusura" del sistema dei reati contro la pubblica amministrazione) può comportare l'espansione degli spazi di applicazione delle norme di cui agli artt. 318 c.p. ("corruzione per l'esercizio della funzione") e 319 c.p. ("corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio"), che riguardano anche le attività discrezionali e che non contengono limiti per quanto riguarda il riferimento alle fonti, mediante un'interpretazione del loro elemento costitutivo "utilità", che lo intenda non soltanto sul piano patrimoniale, ma anche sul piano non patrimoniale comprensivo di ogni interesse, anche soltanto affettivo o simbolico, personale o anche soltanto personalizzato.

Facendo, così, assumere a tali norme (a fronte di una sostanziale neutralizzazione della fattispecie di abuso d'ufficio) la funzione di norme di "chiusura" del sistema dei reati contro la Pa con possibile recupero, in sede di applicazione giurisprudenziale, di profili dell'abrogata (con la riforma del 1990) fattispecie di interesse privato in atti d'ufficio.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©