Appalti

Intervento. Dl Semplificazioni occasione persa per il Ppp: restano i vincoli per gli investitori istituzionali

Tema ignorato anche nel Piano Nazionale di Riforma (Pnr) dove in 129 pagine di buoni propositi non vi è traccia del contributo dei privati nella realizzazione delle infrastrutture

di Antonio Gennari (*)

Con l'emanazione del Dl 76/2020 sulle semplificazioni il Governo ha preso un po' di coraggio ed ha introdotto nel sistema degli appalti una maggiore capacità di decisione della Pa nei sistemi di affidamento. Certo non ha adottato la proposta del gruppo di lavoro Colao di recepire, coi dovuti collegamenti al nostro ordinamento, direttamente le Direttive Europee in tema di appalti e concessioni (scheda 22 del documento Colao) ma ha cercato, per un tempo limitato, di avvicinarsi.

Le Direttive europee in tema di appalti e concessioni attribuiscono alle stazioni appaltanti un potere discrezionale, la capacità di decisione e flessibilità che se usate in modo corretto producono efficienza ed efficacia nelle procedure di affidamento e nella gestione dei contratti con minori costi per tutto il sistema.
Saper individuare procedure flessibili in funzione dei lavori da realizzare e saper negoziare con il mercato sono obiettivi presenti nella regolazione dei principali paesi europei.

"Allenare" la Pa a negoziare in modo efficiente con gli operatori economici è uno degli obiettivi dichiarati in Francia , dove la regolazione ha obbligato le stazioni appaltanti statali ad applicare sistematicamente il dialogo competitivo nei sistemi di affidamento, istituto che in Italia, seppur presente nel codice dei contratti pubblici, è stato totalmente dimenticato.
Restituire le capacità decisionali alle pubbliche amministrazioni è stato quindi l'obiettivo del Governo che trova il culmine nel comma 4 dell'articolo 2 del DL 76/2020 dove si enuncia che nei casi di urgenza dovuta al covid-19 e "nei settori dell'edilizia scolastica, universitaria, sanitaria, carceraria, delle infrastrutture per la sicurezza pubblica, dei trasporti e delle infrastrutture stradali, ferroviarie e portuali, aeroportuali, lacuali e idriche, … nonché gli interventi funzionali alla transizione energetica", le stazioni appaltanti per l'affidamento delle attività di esecuzione dei lavori, servizi e forniture operano in deroga ad ogni disposizione di legge diversa da quella penale, fatto salvo le disposizioni del codice delle leggi antimafia e dei vincoli derivanti dall'appartenenza alla Ue, ivi comprese le Direttive Europee in tema di appalti e concessioni ed i limiti del subappalto.

Di fatto sono applicate direttamente le Direttive europee con i vincoli antimafia ed i limiti al subappalto (questi ultimi potevano essere omessi visto che dovremmo allinearci all'Europa, dopo la sentenza della Corte di giustizia Europea, dove prevalentemente il subappalto si applica gara per gara in funzione delle caratteristiche dei lavori).

Un cambiamento radicale, quindi, che, seppur a tempo, potrebbe innestare processi di innovazione nei sistemi di affidamento e di gestione dei contratti pubblici che possono essere sperimentati in questi 12 mesi consentiti dal decreto, che se produrranno effetti positivi in termini di efficienza potranno essere recepiti nell'ordinamento una volta finita l'emergenza.

Naturalmente se le stazioni appaltanti avranno la volontà e la capacità di osare nuove strade di efficienza nel processo di affidamento e nella gestione dei contratti e non siano affette da crisi di "astinenza" da regolazione come sembra emergere da alcune prese di posizioni di lobby conservatrici del mondo imprenditoriale che dopo aver per anni dichiarato guerra alla burocrazia oggi al momento opportuno denunciano la "deregolamentazione" come male assoluto.

Prese di posizione che nascono dal presupposto che la Pa sia piena di corrotti e collusi e che quindi non debba decidere niente e limitarsi ad applicare procedure definite senza assumersi nessuna responsabilità. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Pochi investimenti e gare che sono un terno al lotto con la penalizzazione delle imprese con capacità industriali e la condanna al nanismo imprenditoriale. Di fatto si determina una selezione avversa che allontana dal mercato dei lavori pubblici proprio le imprese con maggiori capacità industriali e di innovazione con una perdita di competitività del sistema economico-
Forse è l'ora di cambiare paradigma: più fiducia alla Pa (nella quale si trovano molte persone competenti, appassionate del loro lavoro e in grado di assumersi la responsabilità) e più fiducia alle imprese.

Ma se il DL semplificazioni prova a cambiare l'approccio nel sistema degli appalti, nessuna indicazione di innovazione viene prospettata in tema di concessioni, partenariato pubblico privato (Ppp), project financing, se non per un'unica modifica della procedura del promotore dell'art. 183 del Codice dei contratti pubblici, utile ma marginale nel sistema del Ppp.

E sembra che il Governo abbia cancellato il tema anche nel Piano Nazionale di Riforma (Pnr) dove in 129 pagine di buoni propositi non vi è traccia del contributo dei privati nella realizzazione delle infrastrutture.

Forse la vicenda Autostrade, che paga una regolazione vecchia di 20 anni, e l'illusione che la Pa possa fare tutto da sola con i cospicui fondi in arrivo dall'Europa rischia di mettere l'Italia fuori dai grandi trend che caratterizzano le economie avanzate.

In tutti i paesi dell'area OCSE, infatti, il risparmio istituzionale (fondi pensione, assicurazioni vita, Casse di previdenza) è cresciuto in modo esponenziale e questa massa rilevante di "risorse responsabili" – di previdenza contributiva – ha indotto gli investitori istituzionali a cercare impieghi idonei a garantire equilibri demografico-finanziari di lungo termine. In tale prospettiva accanto all'eleggibilità per l'equity e alla bancabilità per i finanziamenti assume per tali investitori importanza fondamentale l'addizionalità, ovvero l'impatto effettivo sull'economia, l'ambiente, l'innovazione e le dinamiche sociali (con ampia adesione ai Pri dell'Onu).


In tale prospettiva, una parte crescente di risorse è indirizzata ad investimenti in infrastrutture sociali urbane, nei settori della sanità e dell'istruzione e nelle infrastrutture dedicate all'erogazione di sevizi pubblici.
In Italia gli investitori istituzionali incontrano ancora difficoltà ad investire in infrastrutture per i limiti e le anomalie che caratterizzano la regolazione del Ppp, storicamente caratterizzato da una visione appaltistica.

L'Unione Europea, di contro, ha adottato due diverse direttive per disciplinare le diverse fattispecie giuridiche: la Direttiva Appalti che parla agli appaltatori e la Direttiva Concessioni che si rivolge agli investitori. Nel primo caso si regolano le modalità di affidamento degli appalti ed i relativi contratti ed è prevalentemente indirizzata alle imprese che operano nel settore dei lavori pubblici. Nel secondo caso si disciplinano le modalità di affidamento dei contratti di concessione ed è prevalentemente indirizzata agli investitori e gestori di beni di pubblica utilità. In Italia la commistione tra le due fattispecie inserite nel codice dei contratti pubblici ha prodotto una normativa anomala rispetto a quella registrata negli altri paesi europei.

Un'anomalia che ha prodotto vincoli che di fatto impediscono gli investimenti da parte degli investitori nelle operazioni greenfield e che possono essere così sintetizzati:
• Un investitore aggiudicatario di un contratto di concessione di costruzione e gestione, qualora non abbia i requisiti tecnici di un'impresa di costruzioni, deve obbligatoriamente costituirsi in ATI o costituire una società di progetto con una o più imprese esecutrici (e/o gestori di servizi).

• Qualora l'investitore che non abbia i requisiti tecnici e non si sia costituito in ATI o costituito una società di progetto con le imprese esecutrici, deve affidare i lavori con una gara ad evidenza pubblica (art. 164 del D.lgs. 50/2016), come se fosse una stazione pubblica appaltante invece di essere un privato.

Questa normativa che trasferisce alle concessioni principi di ispirazione appaltistica finisce con il penalizzare l'investitore professionale e istituzionale che, rischiando equity, ha come obiettivo primario non la costruzione, ma l'organizzazione e ottimizzazione dell'intera operazione di costruzione e gestione di un asset, al fine di ricavarne un ritorno predefinito, operando in collaborazione con la Pa concedente durante le fasi del processo, intervenendo direttamente su tutti gli elementi che determinano la reddittività dell'iniziativa nella prospettiva di una struttura progettuale priva di conflitti di interesse e adeguata a gestire le trasformazioni e l'adeguamento tecnologico dell'asset stesso.

Da segnalare che l'investitore con il contratto di concessione si assume tutti i rischi dell'operazione, compreso il rischio costruzione, ma non quello dell'impresa di costruzioni che si configura come un qualificato fornitore di una prestazione, e deve organizzare liberamente i fattori produttivi per rispondere complessivamente alle obbligazioni sottoscritte.

Peraltro, non si comprende come l'investitore concessionario, in virtù del fatto che la gara con evidenza pubblica sia già stata esperita a monte, non possa selezionare l'impresa esecutrice tramite gara privata, nel rispetto del piano economico finanziario e dei requisiti tecnico economici richiesti dal bando.

Al riguardo, una ricerca effettuata nei principali paesi europei sulle legislazioni di recepimento della Direttiva Europea sulle concessioni evidenzia come l'obbligo per il concessionario di costituirsi in ATI o costituirsi in società di progetto con le imprese esecutrici ovvero l'obbligo di selezionare l'impresa esecutrice con gara pubblica sia presente solo nella legislazione italiana, mostrando in modo evidente l'anomalia che ci disallinea rispetto all'Europa. Un'anomalia che deve essere rimossa se si vuole rilanciare il PPP in Italia.
Vincoli anomali che si ritrovano anche nelle operazioni brownfield, dove investitori acquisiscono concessioni in essere i cui titolari della concessione non abbiano interesse a continuare la gestione.

Per facilitare gli investimenti privati appare utile eliminare l'obbligo di affidamento a terzi tramite procedure ad evidenza pubblica, soprattutto relativamente ai servizi e alle forniture, da sempre considerati sia dal diritto europeo che da quello nazionale rientranti nell'ordinaria e necessaria "flessibilità" del concessionario che non sia amministrazione aggiudicatrice e non soggetti ad alcun vincolo procedurale.

Nell'attuale formulazione dell'art.177 del Codice dei contratti pubblici, invece, il legislatore italiano impone che i titolari di concessioni già in essere alla data di entrata in vigore del Codice, non affidate con la formula della finanza pubblica ovvero con procedura di gara di evidenza pubblica, siano obbligati ad affidare una quota pari all'80% dei contratti di lavori, servizi e forniture mediante procedure di evidenza pubblica.

Ciò comporta l'imposizione di vincoli stringenti ai concessionari privati, condizionandone la libertà di scelta del modello operativo, con conseguenze negative anche sull'efficienza gestionale e sull'economia di scala (in ultimo, quindi, sulla stessa convenienza ad investire). Tali limiti, fissati indistintamente per lavori, servizi e forniture a prescindere da qualsiasi verifica di sussistenza di adeguate condizioni concorrenziali, incidono fortemente sull'assetto dell'intero settore delle utilities ed ostacolano notevolmente l'ingresso di nuovi investitori.

La ragione principale che ha indotto il legislatore italiano ad introdurre l'art. 177 del Codice dei contratti pubblici è quello di recuperare a valle la concorrenza violata nell'affidamento della concessione a causa del mancato rispetto degli obblighi imposti dalla normativa di riferimento; ma non sempre si è verificata una violazione della normativa di affidamento delle concessioni, perché molto spesso tali concessioni, risalenti anche a molti anni or sono, sono state affidate nel pieno rispetto della disciplina all'epoca vigente.

Inoltre, la modifica della regolazione in corso di concessione altera in modo pesante le condizioni pattizie liberalmente sottoscritte dalle parti (Pa concedente e concessionario privato), a fronte di investimenti effettuati quando non era stato ancora introdotto questo obbligo di gara a valle. Ciò, infine, configura una sicura barriera all'ingresso di nuovi investitori.

Da rilevare, infine, che non si ritrova nella Direttiva Europea sulle Concessioni alcuna disposizione che sia riferibile all'impostazione contenuta nell'art. 177 del Codice dei contratti pubblici vigente in Italia, né altri Paesi l'hanno introdotta in sede di recepimento.
Ne consegue che la legislazione vigente penalizza in modo inappropriato gli investitori che operano in Italia. Soprattutto si impedisce di acquisire concessioni in essere attualmente in capo ad operatori privati locali, spesso coincidenti con le stesse imprese di costruzione promotrici di operazioni in project financing, che ritengono utile smobilitare tali investimenti per acquisire liquidità per le proprie attività core e non hanno nel loro modello di business la gestione di lungo periodo di infrastrutture (si veda, ad esempio, il settore dei parcheggi).

Per questi motivi si ritiene utile eliminare l'obbligo di scegliere con gara pubblica i fornitori di servizi e forniture e allinearci anche in questo caso all'Europa.

La strada per rendere il nostro sistema efficiente appare impegnativa ma necessaria se vogliamo ricominciare a crescere.

(*) Senior advisor di Arpinge Spa e Assimpredil Ance

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