Amministratori

Controllo pubblico congiunto, necessario che risulti da atti o accordi vincolanti per i soggetti coinvolti

O almeno che sia dimostrato un comportamento concludente dei soci pubblici

di Stefano Pozzoli

Per il Consiglio di Stato, perché si realizzi una situazione di controllo pubblico congiunto, è necessario che questo risulti da atti o accordi che vincolino i soggetti pubblici all'esercizio congiunto delle loro prerogative o, quanto meno, che sia dimostrato un comportamento concludente dei soci pubblici orientato in tal senso.

L'occasione per esprimersi in tal senso, nella sentenza della Sezione V del 10 marzo 2023 n. 2543, è data dal ricorso della Camera di commercio Venezia Giulia, che contesta alla Udine e Gorizia Fiere Spa (sua partecipata al 5%) il fatto di essersi rifiutato di soddisfare l'istanza d'accesso presentata dalla Camera per l'ostensione di vari documenti sociali e contabili facenti capo alla società, in funzione dell'interesse dell'istante ad ottenere la liquidazione della propria quota di partecipazione.

Il Consiglio di Stato torna dunque su un tema cruciale per le società a partecipazione pubblica, visto che su di esso si gioca l'obbligo o meno di applicazione del Tusp (Dlgs 175/2016) e della relativa disciplina vincolistica alle società "pubbliche", oltre che quella delle disposizioni sulla trasparenza, che sono l'oggetto specifico del contenzioso.

Il Consiglio di Stato, sul caso di specie, è tassativo: «Di un siffatto potere di controllo l'appellante non fornisce tuttavia evidenza, (…) né d'altra parte è fornita evidenza che qualcuno dei soci pubblici disponga di tale controllo (da intendere in termini tecnici, ex art. 2359 Cod. civ.), considerato che il socio maggioritario (…) non detiene la maggioranza assoluta del capitale, né è dimostrato sussistano elementi di fatto tali da determinarne un'influenza dominante ex art. 2359, comma 1, n. 2) o 3) Cod. civ., ovvero atti od accordi, o anche comportamenti concludenti tra i soci, fondanti un potere di controllo congiunto fra più amministrazioni».

E «sebbene sia controversa e non univoca la nozione di "controllo pubblico congiunto" (…) l'interpretazione da più parte datane (…) è tale per cui non è sufficiente a tali fini una semplice sommatoria delle partecipazioni di soggetti pubblici tale da esprimere la maggioranza del capitale sociale - potendosi diversamente conformare e modulare gli assetti di potere nell'ambito degli organi societari - ma occorrono piuttosto, in assenza di un controllo monocratico ex art. 2359 Cod. civ., atti o accordi che vincolino i soggetti pubblici all'esercizio congiunto delle loro prerogative, così da rendere concreto ed effettivo un potere di controllo pubblico (Cons. Stato, n. 578 del 2019, …), o quanto meno un comportamento concludente dei soci pubblici orientato in tal senso».

Il risultato, evidente, è che diventa assai semplice per liberarsi dei "fastidi" del Tusp, visto che è sufficiente non stipulare patti di sindacato, mentre è certo più complesso dimostrare l'esistenza di un controllo di fatto.

In caso di assenza di controllo, però, viene da domandarsi a cosa serva detenere una partecipazione di minoranza. È questo il quesito a cui dovremmo dare risposta, come richiedono, pur nel quadro previsto dalla Corte costituzionale (che ammette le partecipazioni di minoranza limitatamente alle attività previste dal Tusp (Corte costituzionale, sentenza n. 201/2022), sia la Corte dei conti (Corte dei conti, Sezione di controllo per la Toscana, delibera n. 68/2022) sia il Mef, per il quale «una partecipazione siffatta non può garantire l'accesso al servizio così come declinato nell'articolo 4 del TUSP» (RgS, circolare n. 22/2022).

In sede di revisione del Tusp sul tema si dovrà certo tornare, e fare una scelta netta, perché su ciò si gioca la credibilità e l'applicabilità dell'intero testo normativo.

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