Amministratori

In house, parametri al buio per i servizi non a rete

La definizione dei criteri di ammissibilità affidata al ministero delle Imprese

di Stefano Pozzoli

Stupisce la disattenzione sugli indicatori e i parametri che si devono prendere a riferimento in caso di affidamento in house di un servizio pubblico locale. Su di essi si gioca buona parte dell’impatto effettivo del decreto di riordino, ma fino a oggi il dibattito è stato inadeguato.

Secondo l’articolo 7, che riguarda i servizi a rete, «le autorità di regolazione individuano per gli ambiti di competenza i costi di riferimento dei servizi, lo schema tipo di piano economico-finanziario, gli indicatori e i livelli minimi di qualità dei servizi» sia per il monitoraggio annuale dei servizi pubblici locali (articolo 30) sia per le modalità di affidamento (articoli. 14, comma 2, e 17, comma 2).

Fintanto che questi parametri - destinati appunto ad avere un elevatissimo significato sull’ammissibilità di un affidamento in house - vengono individuati da Autorità indipendenti e specializzate, quali Arera e Art, non c’è motivo di nutrire pregiudiziali sul merito della scelta. Anzi questi indicatori, se terranno conto delle peculiarità territoriali e verranno presi come punto di riferimento per una normale efficienza risolvono certo il problema, di individuare benchmark di riferimento ragionevoli.

Diverso, però, è quanto viene proposto per i servizi pubblici locali non a rete, dove il compito, originarimante attribuito alla presidenza del Consiglio, è stato oggi affidato al ministero delle Imprese (articolo 1, comma 6 del Dl 13/2023).

Che si tratti della presidenza o di un ministero, la questione non cambia: mancano specializzazione e indipendenza.

Né si comprende, data la varietà del panorama dei servizi pubblici non a rete, come e in che tempi potrà essere data attuazione a una disposizione del genere.

Spetta al ministro D’Urso individuare una modalità credibile e ragionevole di misurazione dei parametri, magari costituendo un organismo tecnico a cui partecipino le rappresentanze degli enti interessati, a partire da Anci e Confservizi, fino alle Regione e ad Assofarm.

Se però si pensa di fare il tutto al chiuso di un ufficio ministeriale è inevitabile che il lavoro sarà destinato a suscitare forti polemiche o a svolgere un esercizio debole, perché, senza un consenso sul processo ed una fiducia sui numeri, difficilmente si arriverà ad un set di indicatori riconosciuto come attendibile.

Viene da pensare, piuttosto che attendere i risultati di una elaborazione nazionale, che tale attività possa essere efficacemente svolta da Agenzie di Regolazione regionali, visto che ne offre la possibilità il successivo articolo del decreto. Infatti, ai sensi dell'articolo 9, comma 3: «Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, anche con la collaborazione delle loro agenzie di regolazione ove istituite, sostengono l'industrializzazione dei servizi pubblici locali e la riduzione dei costi delle prestazioni (…) e accrescere la qualità e l'efficienza dei servizi pubblici». Per altro, i medesimi soggetti, a questi fini, «possono stipulare accordi e convenzioni con gli enti locali e altri soggetti interessati», coinvolgendo enti locali ed associazioni di imprese nella definizione dei parametri.

L'auspicio, perciò, è che Regioni e Province autonome non solo si dotino di «Agenzie di Regolazione regionali», ma che presidino il tema, assicurando indipendenza ed autorevolezza a chi dovrà gestire la «fabbrica dei numeri».

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