Amministratori

Crisi di vocazioni nei Comuni: pioggia di «no» alle candidature a sindaco

Amministrative, da Roma a Milano, senza successo la ricerca di candidati civici

di Barbara Fiammeri e Gianni Trovati

«Al momento la mia disponibilità sarebbe inutile, perché il Comune presenta una situazione economica e organizzativa drammatica». Il «no» di Gaetano Manfredi, ex ministro dell’Università ed ex rettore della Federico II che Pd e M5S puntavano a candidare a sindaco di Napoli, nasce certo dalla peculiarità partenopea, dove il Comune rischia il dissesto se non sarà rinnovato il «salva-Napoli» che blocca la Corte dei conti fino al 30 giugno. Ma arriva dopo il «no grazie» di Gabriele Albertini per il centrodestra a Milano. E mentre si attende la conferma del terzo gran rifiuto, quello di Guido Bertolaso per Roma. Anche se, si fa sapere, Silvio Berlusconi, appena dimesso dal San Raffaele, stia personalmente trattando la pratica per convincere l’ex Capo della Protezione civile. In alternativa si è fatto il nome di Giulia Bongiorno, l’ex ministra della Lega e avvocatessa quotatissima che dovrebbe mettere da parte la sua professione per 5 anni. Forse troppi. E lontano dalle grandi città, e dalle cronache nazionali, la crisi delle vocazioni amministrative rischia di rivelarsi ancora più intensa.

Il fatto è che fare il sindaco sarà anche il «mestiere più bello», come sostiene il primo cittadino di Milano Beppe Sala, pronto a correre per il secondo mandato a Palazzo Marino. Ma non per tutti.

Perché gestire un municipio, che sia una metropoli o un piccolo borgo, è diventato sempre più complicato e rischioso. C’è il rischio dissesto, come a Napoli (e negli oltre 800 Comuni che oggi attendono il sostegni-bis per evitare i dissesti a catena dopo che la Consulta ha cancellato il ripiano in 30 anni del deficit da prestiti sblocca-debiti). C’è il rischio di fallimento politico, come a Roma dove l’impresa di rimettere in piedi la capacità del Comune di dare servizi degni e fare investimenti reali si è rivelata superiore alle forze di tutti gli ultimi sindaci. E ci sono i rischi penali, personali, alimentati da un groviglio di regole che uniformano le vicende più disparate sotto una risposta universale: la colpa è del sindaco.

È l’insieme di queste ragioni a rendere ormai complicatissima anche la ricerca di nomi fuori dal circuito della politica. A Roma il centrosinistra punta su un politico di lungo corso come l’ex ministro Roberto Gualtieri e lo stesso, dopo il «no» di Manfredi avverrà a Napoli (in lizza l’attuale presidente della Camera, il pentastellato Roberto Fico oppure il dem Enzo Amendola).

Politici o meno, per i sindaci gli oneri superano di gran lunga gli onori. Le indennità misurano in termini concreti lo squilibrio di questo rapporto. La sindaca della Capitale d’Italia, Virginia Raggi, percepisce un’indennità di circa 120mila euro lordi l’anno, circa la metà di molti dirigenti di prima fascia della Pubblica amministrazione o di magistrati, meno di un consigliere regionale e molto meno anche dell’ultimo dei parlamentari. Per una città da 100mila abitanti si viaggia intorno ai 60mila euro all’anno, e qui il confronto è perdente anche con i dirigenti di seconda fascia.

Le responsabilità sono invece incomparabilmente superiori e le conseguenze non prive di rischi, sia sul fronte penale che civile. Ultimo esempio la condanna di Chiara Appendino, sindaca M5s di Torino, a un anno e sei mesi per omicidio colposo e disastro colposo a seguito dei tragici fatti di Piazza San Carlo la notte della finale tra Juventus e Real Madrid. Il caso-Appendino ha prodotto la rivolta di oltre 4mila sindaci che hanno firmato un appello lanciato dall’Anci per modificare le norme sulle responsabilità. Perché anche qui il problema prescinde dalle dimensioni del Comune. Lo dimostra per esempio il rinvio a giudizio del meno noto sindaco abruzzese di Fara San Martino, Carlo De Vitis, per il masso staccatosi da una montagna che ha colpito e ucciso un’escursionista. I sindaci «bisogna pagarli meglio e tutelarli di più da incursioni della magistratura che troppo spesso comincia a indagare e poi finisce nel nulla», ha rilanciato ieri Salvini.

In effetti la stima fatta dai sindaci dice che su circa 7.000 contestazioni di abuso d’ufficio nel biennio 2016-17 solo 100 hanno portato a provvedimenti definitivi di condanna. Non deve quindi stupire che trovare candidati disponibili a un impegno totale sia diventata impresa improba, dal momento che gli si chiede di fatto non solo di rinunciare alla loro attività e all’autonomia di cui dispongono ma anche di mettere in gioco reputazione e patrimonio. Non poco. Qualcosa è stato tentato per alleggerire il peso che grava sui primi cittadini. Il Conte II nel decreto Semplificazioni ha riformato il reato di abuso d’ufficio che comunque lascia sempre ampi margini di discrezionalità. Per questo il presidente dell’Anci, Antonio Decaro, spinge per una riforma che fissi i confini delle responsabilità. In Parlamento c’è il Ddl «liberiamo i sindaci» (primo firmatario Roberto Pella, Fi). Che però deve accelerare drasticamente per arrivare in tempo per le amministrative.

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