Condannato per interruzione di pubblico ufficio chi causa la sospensione del consiglio comunale
Chi pretende in modo reiterato e insistente di prendere la parola in Consiglio comunale senza averne diritto e cagionando così la sospensione necessitata della seduta per venti minuti commette il reato di cui all'articolo 340, comma 1, del Codice penale.
Il turbamento della seduta del Consiglio comunale da questi determinato, concretizzatosi in urla ripetute dell'agente e di altre persone innescate dal suo comportamento che hanno impedito il regolare svolgimento dei lavori, non costituisce infatti esercizio del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero garantito costituzionalmente dall'articolo 21 comma 1 della Costituzione, ma integra il delitto correttamente contestatogli.
Ciò, in quanto la condotta dolosa dell'imputato ha cagionato un'apprezzabile alterazione del funzionamento dell'ufficio/servizio, anche se se temporanea, ma non del tutto irrilevante.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza n. 12218/2019.
Il caso
Il ricorrente è stato condannato in primo ed in secondo grado per il delitto di cui all'articolo 340, comma 1, del Codice penale, poiché, dopo essersi recato insieme ad altre venti persone presso la sala del Consiglio comunale ed aver chiesto di intervenire, nonostante il diniego espresso dal Presidente del Consiglio a cagione del fatto che il regolamento comunale non prevedeva tale possibilità, urlava a viva voce unitamente alle altre persone intervenute con lui, che mostravano anche striscioni, ed insieme al capogruppo di minoranza. L'azione perdurava per venti minuti e costringeva il Presidente a sospendere la seduta e a richiedere l'intervento della forza pubblica al fine di riportare la calma e di poter riprendere i lavori.
I motivi di ricorso
L'imputato ha chiesto l'annullamento della sentenza d'appello per i seguenti motivi:
- la condotta realizzata non sarebbe stata quella pretesa dalla norma incriminatrice, costituendo anzi essa esercizio del diritto di libera manifestazione del proprio pensiero, che, peraltro, non gli sarebbe stato consentito non potendo egli intervenire in alcun modo;
- mancherebbe del tutto il dolo richiesto dall'articolo 340, comma 1, del Codice penale, giacché l'agente non avrebbe affatto voluto interrompere la seduta, anche considerando che i cori e le proteste degli altri intervenienti sarebbero giunte soltanto dopo che all'imputato stesso fu negato di intervenire;
- sarebbe infine mancato il reale pregiudizio al regolare svolgimento della seduta consiliare, poiché la turbativa durò solo 20 minuti, dopo la sospensione fu ripresa e sia l'imputato sia glia altri soggetti intervenuti con lui, all'arrivo della Polizia, lasciarono l'aula.
La sentenza
Il Collegio ha ritenuto il ricorso infondato, ravvisando nella fattispecie la presenza di tutti gli elementi costitutivi del reato in contestazione.
Quanto alla condotta, gli Ermellini hanno constatato che il turbamento della regolarità della seduta ha comportato un'apprezzabile alterazione del funzionamento dell'ufficio/servizio, sebbene temporanea.
Sul punto, la sentenza ha così aderito alla tesi giurisprudenziale prevalente per la quale non è necessario che il turbamento sia durevole o totale, essendo sufficiente che assuma, come nel caso di specie, una sia pur minima rilevanza (confronta per tutti, Corte di Cassazione, sezione V penale, sentenza numero 1913 del 16 ottobre 2017).
Pertanto, il riferimento al diritto di cui all'articolo 21 comma 1 della Carta fondamentale risulta del tutto inconferente, in quanto esso «cessa di essere legittimo quando travalichi nella lesione di altri interessi costituzionalmente tutelati, come quando si concreti in un comportamento integrante la fattispecie di cui all'articolo 340 cod. pen. con modalità di condotta, che esorbitino dal fisiologico esercizio di quei diritti (…) come avvenuto nel caso in esame».
Anche in relazione al dolo generico richiesto dalla norma e consistente nella consapevolezza dell'idoneità della condotta a realizzare il pregiudizio da essa considerato, accettando ed assumendone il relativo rischio (confronta Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza n. 39219 del 9 aprile 2013), la sentenza ne ha riscontrato la ricorrenza.
L'imputato, infatti, ha più volte disatteso le richieste del Presidente di desistere dalla propria condotta che, in ultima analisi, ha causato un subbuglio generale ed ha costretto l'interruzione necessitata della seduta per 20 minuti, con ripresa dei lavori dopo l'arrivo della polizia che ha ristabilito l'ordine e la calma.