Fisco e contabilità

Ici di Chiesa e no profit, la Ue torna alla carica sugli arretrati

La commissione segue la sentenza del 2018 della Corte di giustizia che respinge l’ipotesi di sanatoria. Esclusi edifici di culto, attività sociali e importi fino a 200mila euro in tre anni

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di Marco Mobili e Gianni Trovati

La commissione europea chiede all’Italia di recuperare l’Ici non pagata dalla Chiesa e dal Terzo dal 2006 al 2011. O almeno di provarci, in particolare quando gli importi in gioco superano i 200mila euro in tre anni.

La decisione comunicata ieri da un portavoce dell’Esecutivo comunitario al termine di un fitto confronto con le autorità italiane riapre la vicenda eterna degli arretrati dell’imposta locale sul mattone. E allarga il campo minato dei rapporti fra Roma e Bruxelles che già spazia dai balneari alle revisioni del Pnrr senza dimenticare auto, case green e riforma del Patto di stabilità.

La nuova richiesta Ue non è una sorpresa. Perché nella battaglia ultradecennale sulla cosiddetta imposta del no profit il tentativo italiano di stendere un velo definitivo sul passato era già caduto da anni. Anche se rimane complicatissimo, sul piano tecnico oltre che su quello politico, attuare davvero il tentativo di recupero chiesto dalla commissione. Servirà una norma, come per i balneari, e servirà la voglia di scriverla, inanellando un altro dossier spinoso per i settori di riferimento del centrodestra come già accaduto per il Superbonus o le accise sulla benzina.

Secondo le stime, in discussione c’è una somma fra i 4 e i 5 miliardi di euro. Ma è un calcolo teorico, verosimilmente destinato a rimanere tale.

Tutto nasce dalle generosissime esenzioni che in Italia fino al 2011 escludevano dall’imposta sul mattone gli immobili degli enti non commerciali a prescindere dalle modalità di utilizzo. Ma Chiesa e no profit utilizzano i loro beni anche per alberghi, asili, scuole private e altre attività commerciali. Per cui l’esenzione è stata giudicata a suo tempo fuori linea rispetto ai vincoli sugli aiuti di Stato, che guardano alle modalità concrete di esercizio delle attività economiche e non certo alla natura dei proprietari degli immobili che le ospitano.

È nata da qui la riforma faticosamente partorita fra 2011 e 2012, che in modo spesso cervellotico fissa i criteri per identificare la «modalità commerciale» che fa scattare l’imposta, nel frattempo divenuta Imu e poi «nuova Imu», quando rappresenta l’utilizzo prevalente dell’immobile. Il principio è chiaro, e definisce «commerciale» l’attività accompagnata da tariffe che non siano solo «simboliche» ma servano effettivamente a coprire almeno una quota dei costi. La sua declinazione pratica è assai meno lineare. Ma il problema non è questo.

Alla luce della riforma, l’Italia ha sostenuto (correttamente) di essersi allineata alle regole comunitarie, ma ha precisato anche che non sarebbe stato possibile far risalire indietro nel tempo l’applicazione dei nuovi parametri perché le modalità di utilizzo degli immobili sono state autodichiarate con il modello attuativo della riforma e le banche dati fiscali non contengono informazioni in grado di far luce sul passato.

La lettura italiana è stata inizialmente appoggiata dalla commissione Ue, concorde sulla «impossibilità di recupero dell’aiuto a causa di difficoltà organizzative». Ma è stata contestata dal partito Radicale e dalla scuola Montessori di Roma, autori del contenzioso che aveva travolto le vecchie norme. Nel 2016 il Tribunale Ue aveva confermato la tesi dell’impossibilità, ma due anni dopo la Corte di Giustizia aveva ribaltato il verdetto imponendo alla commissione di chiedere all’Italia il recupero degli arretrati. La richiesta è arrivata ieri.

Nelle sue indicazioni, l’Esecutivo comunitario precisa che questo ritorno al passato esclude le attività «non economiche» (non si paga su chiese, oratori e così via) o le esenzioni che rientrano nel tetto del «de minimis» (i 200mila euro in tre anni). E ha indicato una possibile via nell’integrazione dei dati raccolti con i modelli dichiarativi, anche attraverso la via dell’autodichiarazioni. Facile a dirsi. Molto meno a farsi.

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