Mansioni superiori «di fatto», per le differenze retributive non serve l'atto formale di attribuzione
Vale il principio costituzionale che assicura comunque al lavoratore un compenso proporzionato alla qualità del lavoro prestato
La Corte di cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 14808/2020, affronta la questione delle mansioni superiori «di fatto». In un giudizio contro la sentenza della Corte d'appello di Campobasso che aveva negato il riconoscimento ai fini economici delle mansioni superiori svolte alle dipendenze di un'azienda sanitaria, in assenza di un atto formale di attribuzione, la Cassazione, ribaltando il giudizio, ha fornito importanti indicazioni circa l'applicazione di questo istituto previsto dall'articolo 52 del Dlgs 165/200
1.
La Corte territoriale, nel rigettare la richiesta economica di un lavoratore che aveva di fatto e in modo incontestabile svolto mansioni superiori, aveva ritenuto indispensabile un atto formale di assegnazione per il quale si richiede la forma scritta ad substantiam e che, nella specie, mancava.
Per la Cassazione (richiamando numerosi precedenti giurisprudenziali), invece, questo requisito non è necessario per ottenere, in termini retributivi, il differenziale economico fra la qualifica di inquadramento e quella (superiore) attinente alle mansioni di fatto svolte.
Per la Cassazione, in materia di pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscere nella misura indicata nel Dlgs 165/2001 (articolo 52, comma 5) non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, né all'operatività del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all'intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio all'articolo 36 della Costituzione che prevede che «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa».
La Corte d'appello non si è uniformata a questi principi e, sovrapponendo l'ipotesi di acquisizione di una qualifica superiore per effetto dello svolgimento di fatto delle mansioni con quella del solo riconoscimento della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori di fatto, è giunta alla conclusione di negare le differenze retributive.
Il diritto a percepire la retribuzione commisurata allo svolgimento, di fatto, di mansioni proprie di una qualifica superiore a quella di inquadramento formale (articolo 52, comma 5, del decreto legislativo 165/001), di conseguenza, non è condizionato alla legittimità, né all'esistenza di un provvedimento del superiore gerarchico, e trova un unico limite nei casi in cui l'espletamento sia avvenuto all'insaputa o contro la volontà dell'ente, oppure quando sia il frutto di una fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente, o in ogni ipotesi in cui si riscontri una situazione di illiceità per contrasto con norme fondamentali o generali o con principi basilari pubblicistici dell'ordinamento.