Zangrillo: «No a uno stallo eterno - Gli aumenti per legge una sconfitta per tutti»
Il ministro per la Pa, dopo la rottura del tavolo sul contratto sanità, chiede «un ripensamento» ai sindacati contrari e avverte: «Voglio dare questi soldi ai lavoratori, ma senza intesa cadono molte novità
«Ora bisogna fare ogni sforzo per riprendere quanto prima il dialogo, ma lo stallo non può essere infinito perché io questi soldi ai nostri lavoratori li voglio dare. Ricordo, nel caso, che c’è sempre la possibilità di un’erogazione unilaterale, come abbiamo fatto a fine 2023 con l’indennità di vacanza contrattuale, maggiorata e anticipata proprio per attutire il colpo dell’inflazione di quel periodo. Ma sarebbe una sconfitta per tutti, per i sindacati e per il nostro obiettivo di rimettere le persone al centro per riportare la Pa a essere un buon posto di lavoro». Il ministro per la Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo è reduce da una settimana duplice, scandita dalle riunioni e dagli incontri pubblici per discutere le innovazioni tecnologiche e organizzative che attendono la Pa ma travolta dalla rottura delle trattative sul contratto del personale sanitario, in uno scenario che promette di bloccare anche il rinnovo per gli enti locali e di complicare molto quello della scuola.
Ministro, come se ne esce? Se ne esce, spero, con la volontà di tutti di usare ogni spazio per tornare in fretta al tavolo del confronto. L’Italia è un modello per la sua consolidata tradizione di relazioni sindacali e io stesso, anche per il mio vissuto professionale, ho sempre preferito la concertazione, che pur qualche volta con fatica porta a soluzioni condivise. Troverei paradossale che i sindacati, o meglio quelli che a partire da Cgil e Uil hanno determinato lo stallo, preferiscano nei fatti un’erogazione unilaterale automatica come l’indennità di vacanza contrattuale proprio nel momento in cui per la prima volta nella storia della Repubblica il Governo ha costruito le condizioni, e ha messo le risorse, per disegnare una prospettiva che guarda ai rinnovi dei contratti del futuro, fino al 2030.
Ma se lo scontro prosegue, pensa sia possibile imboccare una strada extracontrattuale? In linea teorica è certamente possibile riconoscere gli aumenti per via normativa. Ma sarebbe una sconfitta e, ricordo, implicherebbe la rinuncia alle tante novità che sono state negoziate con i sindacati, comprese Cgil e Uil, e che offrono miglioramenti significativi alle condizioni del personale. Solo per quel che riguarda la sanità, per esempio, penso che l’introduzione del patrocinio legale, dell’assistenza psicologica e della possibilità per l’azienda di costituirsi parte civile quando si verificano le aggressioni non sia un aspetto di poco conto. Ma non è l’unico, perché è stata rivista in profondità la disciplina delle prestazioni aggiuntive e quella del lavoro agile per il personale amministrativo, peraltro con il riconoscimento del buono pasto anche nelle giornate di smart working che ha un non trascurabile impatto economico. Tutto questo, con gli aumenti per legge, cadrebbe.
Che tempi si dà per verificare la possibilità di riavviare il confronto? Ora bisogna far passare questi giorni tumultuosi. La prossima settimana dovrebbe arrivare la certificazione della Corte dei conti e quindi la firma definitiva del nuovo contratto per le Funzioni centrali, dove è stato previsto di strutturare momento di dialogo con i sindacati proprio per ragionare sulle prospettive del rapporto tra amministrazioni e lavoratori. Con l’entrata in vigore del contratto convocherò i sindacati come mi ero impegnato a fare, e quella potrebbe essere la prima occasione per capire come ripartire. Sono un ottimista inguaribile, e quindi spero che si manifesti una disponibilità. Ma so anche perfettamente che se, come sospetto, il «no» è politico, gli spazi si riducono drasticamente. Tanto più che il quadro è complicato anche dal fatto che ad aprile ci sono le elezioni per i rinnovi delle Rsu in tutta la Pubblica amministrazione.
Cgil e Uil però respingono seccamente l’accusa di fare politica, e parlano di «obiezioni di merito». Quando però esponenti sindacali parlano di «cifre a caso» mentre illustro gli aumenti dettagliati dalle tabelle contrattuali, come ha fatto nei giorni scorsi la segretaria della Uil-Fpl Rita Longobardi, o lo fanno in malafede o lanciano accuse senza aver letto il contratto. Perché, ribadisco, basta studiare le tabelle per capire che per esempio nel caso degli infermieri di pronto soccorso l’indennità specifica cresce negli anni fino agli oltre 366 euro del 2026, e con i 150 euro di aumento di base porta l’incremento complessivo vicino ai 520 euro lordi al mese.
Il «no» di Cgil e Uil però non è improvviso. Veniamo da sette mesi di confronto intenso, abbiamo incontrato i sindacati anche prima della legge di bilancio, per cui tutti avevano chiaro il perimetro delle compatibilità in cui ci muoviamo. Ora ci ritroviamo di nuovo con un passo indietro, senza apparenti alternative, in una dinamica che non appartiene più al tavolo negoziale. Qui non si sta facendo sindacato, ma un’altra cosa. E non so bene come riusciranno a raccontare ai propri iscritti di aver rinunciato a tutto questo.
Che conseguenze prevede? Già in questi giorni ho raccolto molte testimonianze di dipendenti che si dicono basiti perché i contenuti del contratto cominciano a girare e a mostrare quindi la possibilità di cominciare a costruire un futuro diverso. Spero che si facciano sentire anche dai propri rappresentanti, e che questa pressione dal basso contribuisca a far loro cambiare idea.
I sindacati contrari, però, contestano un fatto indiscutibile: gli aumenti contrattuali sono molto inferiori all’inflazione del triennio di riferimento. C’è qualche spazio ulteriore per intervenire sulle risorse? Francamente fatico a vederlo, dopo una legge di bilancio 2024 che ha dedicato ai contratti del pubblico impiego 8 miliardi sui 24 di valore totale della manovra, e dopo una legge di bilancio 2025 che per la stessa voce ha stanziato quasi 12 miliardi per rinnovare il 2025/27 e il 2028/30. Dopo aver messo 20 miliardi in due manovre in un Paese che per il suo alto debito è chiamato a rispettare vincoli stringenti anche dalla nuova governance economica europea non mi pare possibile ipotizzare margini ulteriori. Bisogna però guardare il contesto più generale; noi ereditiamo una situazione in cui per otto anni non si sono fatti contratti, poi per il 2016/18 è stato firmato un rinnovo largamente inferiore all’inflazione cumulata nella lunga attesa senza particolari obiezioni dai sindacati. Per finanziare i rinnovi 2019/21 sono state necessarie quattro manovre, al punto che quelle intese sono state tutte concluse da noi nel 2023. In questo quadro, in due tornate contrattuali offriamo aumenti vicini al 15% cumulato, e mettiamo le basi per due successivi rinnovi in linea con le attese di inflazione per i prossimi anni. È un percorso progressivo, l’unico che permette di recuperare nel tempo la centralità e il potere d’acquisto che si è perso nel passato.
Resta il fatto, però, che le retribuzioni medie del pubblico impiego, fuori dalla dirigenza, non possono dirsi ricche Proprio per questo il Governo, con le cifre che ho appena citato, ha mostrato un’attenzione senza precedenti a questo settore
Non teme che queste vicende abbiano anche un impatto negativo sull’attrattività del lavoro nella Pa? Su questo sono molto tranquillo, perché veniamo da due anni straordinari, frutto anche delle tante misure per «rimettere le persone al centro» della Pa, e dei cambiamenti profondi che hanno ridotto il tempo medio delle procedure concorsuali da più di due anni a 4-5 mesi. Fra 2023 e 2024 le amministrazioni pubbliche hanno registrato più di 340mila ingressi, solo lo scorso anno sono stati banditi 23.300 concorsi con 1,3 milioni di candidati, che in molti casi hanno presentato domanda a più selezioni. Abbiamo poi lavorato su altri fattori che possono rendere più attrattiva la Pa, per esempio la formazione: quando sono arrivato alla Funzione pubblica i dipendenti pubblici ricevevano in media 6 ore di formazione all’anno. Ora siamo passati a 24, e nella direttiva che ho appena firmato ho fissato l’obiettivo di 40 ore, specificando che questo target deve incidere sulla valutazione dei dirigenti e quindi sulla loro retribuzione di risultato.
Al di là dei grandi numeri, figli di un turn over ingigantito dall’invecchiamento del personale pubblico, la sfida però si gioca sui tecnici e sulle professionalità più qualificate. E lì il mercato del lavoro privato è vincente, no? Lì la concorrenza è più impegnativa, e per giocare la partita abbiamo puntato su una pluralità di strumenti che vanno dai tirocini ai contratti di formazione e lavoro, dall’apprendistato ai dottorati. Entro qualche settimana porterò poi in consiglio dei ministri un nuovo decreto sulla Pa, che conterrà anche un meccanismo per favorire l’ingresso dei diplomati degli Istituti tecnici superiori. In pratica, si offrirà un contratto da funzionario a tempo determinato di tre anni, durante i quali con Pa 110 e lode (un contributo fino a mille euro all’anno per iscriversi alle università aderenti al protocollo, ndr) sarà agevolata la formazione universitaria, per promuovere il conseguimento della laurea.
L’appeal del posto di lavoro pubblico dipende anche dalle prospettive di carriera. Nel Piano di bilancio è stata annunciata una riforma sul tema. A che punto siamo? Stiamo concludendo i confronti politici per portare il disegno di legge in consiglio dei ministri. Confermo l’obiettivo di creare una via nuova per una quota dei passaggi dal ruolo di funzionario a quello di dirigente, che valorizzeranno le valutazioni interne, affiancandosi così alle procedure concorsuali. Perché i dirigenti della Pa devono essere incentivati a saper fare, non solo a saper studiare.