Progettazione

Gli architetti in fuga all'estero riportano in patria nuove competenze

Sono migliaia gli architetti e ingegneri italiani che da decenni scelgono di rimanere all’estero,«dove c’è chiarezza e ragionevolezza dei processi formali per l’assegnazione e approvazione dei progetti»

di Paola Pierotti

Esodo e controesodo dell’architettura e dell’ingegneria italiana. Cervelli in fuga, ma anche rientri dovuti al Covid o alla Brexit, o più in generale sostenuti dagli sgravi fiscali che il governo italiano prevede, per trattenere le sue eccellenze. Un fenomeno che racconta come e perché all’estero si riesce a lavorare meglio, che delinea le caratteristiche delle giovani generazioni, e che dà qualche idea alle aziende italiane che vogliono investire, per fare innovazione nel mercato pubblico e privato, insieme alla “new generation”.

Sono migliaia gli architetti e ingegneri italiani che da decenni scelgono di rimanere all’estero,«dove c’è chiarezza e ragionevolezza dei processi formali per l’assegnazione e approvazione dei progetti. Dove i processi burocratici sono ridotti all’indispensabile, le prassi consolidate attorno alle tariffe retributive e ai tempi di pagamento sono buone e uguali per tutti». E ancora «il mercato, con un buon equilibrio, permette di costruire delle organizzazioni solide nel tempo, con un organico di persone stabile, potendo quindi sviluppare una metodologia di gestione e sviluppo dei progetti nel lungo termine». È questa, a titolo di esempio la sintesi espressa dall’architetto Marco Pusterla, classe 1972, originario di Grosio (Sondrio), partner dello studio fondato sei anni fa, Jakobsson Pusterla, e da vent’anni in Svezia. Tra i suoi ultimi progetti un eco-quartiere con sette case a schiera (da 65 mq a 370 mq), abitazioni passive, in un lotto di poco più di 1000 mq, a un centinaio di metri dal mare sulla costa orientale dell’Öresund.

Il committente è uno sviluppatore con un grande interesse per l'architettura e la sperimentazione che ha acquistato un lotto per la propria casa e ne ha costruite altre per contribuire al finanziamento della propria. Pusterracconta come in Svezia «il terreno pubblico venga ceduto con delle gare in cui sviluppatore e architetto si alleano per presentare contestualmente una proposta architettonica e di sviluppo». Una linea recentemente intrapresa anche in Italia ad esempio con Reinventing Cities, a Roma e a Milano. «In generale – aggiunge - la committenza nell'immobiliare è nella maggior parte dei casi molto organizzata e fa spesso capo a grosse società, la cui organizzazione è un vantaggio per quello che riguarda la fattibilità dei progetti e per il rispetto dei tempi. D'altro canto, può essere un limite per la sperimentazione visto che si riscontra una forte propensione per soluzioni facilmente industrializzabili».

Oltre confine, tanti giovani talenti italiani sono andati anche per acquisire competenze che nel nostro Paese ancora non hanno mercato. È il caso di Simona Serafino, 36 anni, da 11 all’estero, oggi ad Amsterdam in uno studio dove su 16 professionisti, 4 sono italiani. Laurea a Roma e un anno di master a Barcellona. «Dopo aver fatto esperienza presso HNS e Karres en Brands, da cinque anni – racconta – lavoro presso lo studio Bureau B+B che è stato un trampolino di lancio dal 1977 per numerosi architetti paesaggisti di tutto il mondo. Il nostro target sono enti locali e sviluppatori privati, i referenti principali sono gli architetti, allinterno di team multidisciplinari». Una professione a cavallo tra l’architettura, l’urbanistica, l’ingegneria, la mobilità, la sostenibilità ambientale, l’ecologia. «In Italia – dice la Serafino – si costruiscono le stesse cose, ma generalmente la progettazione degli spazi pubblici la fanno gli architetti, con il supporto di agronomi. Stiamo parlando di professioni diverse dal paesaggista, è come se ad un elettricista si chiedesse di fare il lavoro dell’idraulico». Il paesaggista, nel suo ruolo di designer di spazi per la mobilità e place maker, è una professione tutta da consolidare in Italia, com'è quella dell'esperto di infrastrutture e di mobilità con un ruolo chiave per l’asset management.

Claudio Bonomi Savignon, 42 anni, ingegnere, neoassunto da RFI Direzione Stazioni, è tornato a Roma dopo 5 anni a Londra e altri 8 in Qatar, con una solita esperienza sul tema delle infrastrutture di trasporto (aeroporti, metro, ferrovie) e dei grandi eventi (come gli stadi). Al rientro si è “rivenduto” skills tecniche molto specializzate che in Italia sono appena toccate (ad esempio il crowd modelling) «ma soprattutto – racconta –il modo di fare business ed ingegneria alla anglosassone». Apprezzate evidentemente da uno dei maggiori investitori in infrastrutture nel Paese, attento alla digitalizzazione con big data ed intelligenza artificiale, e che è al lavoro sull'integrazione dei nodi-stazione con il tessuto urbano. «Rispetto ad una decina di anni fa – commenta Bonomi – oggi l’Italia sembra più pronta per proporre temi nuovi ed implementare processi innovativi, soprattutto con la spinta del digitale».

Dall’asset management al facility management, per citare altri esempi, «che all’estero – dice Bonomi – viene riconosciuto come disciplina imprescindibile per la gestione ad opera realizzata». E aver lavorato per anni “in inglese”, con competenze consolidate nel planning stages (dal concept all’approvazione da parte degli enti locali) piuttosto che nella gestione dei cantieri e dei disegni esecutivi e costruttivi, sono plus molto apprezzati. È stato così per Andrea Zunino, originario di Rapallo e a Londra dal 2013 che in pochi mesi lasciando Aecom è tornato in Italia, a Pisa nella squadra di Ati Project. La sfida? I progetti internazionali, come gli ospedali che la società si è aggiudicata in Danimarca. Esodo o controesodo? E se la diffusione dello smart working fosse una leva per consentire ai giovani talenti di scegliere dove abitare e al contempo poter offrire la propria professionalità a chi offre il giusto mix di soddisfazione, retribuzione e crescita professionale?

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