Appalti

Ppp, tra i nodi da risolvere con la riforma degli appalti anche il rebus sui requisiti del concessionario

Due pronunce contrastanti di Tar e Consiglio di Stato aumentano le incertezze di Pa e Imprese

di Velia M. Leone

Un passo avanti e due indietro: questa la sintesi di due ulteriori pronunce sul tema - ossia la sentenza del Tar del Lazio, n. 10997 del 28 ottobre 2020 ed il suo annullamento, da parte del Consiglio di Stato, sez. V, con sentenza 7417 dell'8 novembre 2021 - nel gioco dell'oca, ormai consunto, sulla definizione dei requisiti del concessionario.

Andiamo con ordine. Il Tar Lazio aveva cercato di dare un'interpretazione coerente al coacervo di disposizioni del Codice dei contratti e del Dpr 207/2010 (il Regolamento di attuazione del precedente codice, ancora in vigore in alcune sue parti), con riferimento ai requisiti del concessionario. Le disposizioni in merito sono, infatti, mal coordinate sia tra codice e regolamento, sia all'interno dello stesso codice. Si tratta di un tema di non poco conto, vista l'indubbia rilevanza sia per quanto riguarda il comportamento delle amministrazioni aggiudicatrici nell'indizione delle gare di concessione, o di partenariato pubblico privato, sia per gli operatori economici che intendano avanzare una proposta ai sensi dell'art. 183, comma 15 del codice dei contratti.

Per questi ultimi, in particolare, si richiede l'autodichiarazione dei requisiti di capacità tecnico economica, di cui al comma 17 dello stesso art. 183, che rinvia, alternativamente, ai «i soggetti con i requisiti per partecipare a procedure di affidamento di contratti pubblici anche per servizi di progettazione eventualmente associati o consorziati con enti finanziatori e con gestori di servizi» - del tutto indeterminati -, oppure ai soggetti in possesso dei requisiti del concessionario, di cui al comma 8 dello stesso art. 183, che, però, non declina in alcun modo tali requisiti. È, dunque, naturale che l'unica disposizione ragionevolmente definita a cui si possa fare riferimento (in assenza di un bando di gara) sia solo l'art. 95 del Regolamento, tuttora vigente. Tale esigenza è stata rilevata, peraltro, dalla stessa Anac, come indicato nel parere rilasciato con delibera n. 295 del 13 aprile 2021 (si veda il mio articolo "Project Finance, il nodo dei requisiti del proponente rischia di azzoppare il mercato", Enti Locali&Edilizia, 13 maggio 2021).

Nel caso all'attenzione dei giudici, si trattava di stabilire, in sostanza, se un'amministrazione possa applicare - nell'aggiudicazione di una concessione che contempli sia lavori, sia servizi, con questi ultimi nettamente prevalenti - i requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnica, di cui all'art. 95 del Regolamento e, di conseguenza, consentire agli offerenti, qualificati in base a tali requisiti, di dichiarare - in virtù del comma 3 dello stesso articolo - di non eseguire i lavori previsti con propria organizzazione di impresa, ma di affidarli in appalto a terzi, secondo le procedure previste dall'art. 1, comma 2, lett. d) del codice, secondo cui le disposizioni del codice si applicano ai «lavori pubblici affidati dai concessionari di servizi, quando essi sono strettamente strumentali alla gestione del servizio e le opere pubbliche diventano di proprietà dell'amministrazione aggiudicatrice».

A questo dilemma - che, in effetti deriva dalla giustapposizione di disposizioni tra loro difficilmente sistematizzabili - il Tar Lazio aveva dato non solo risposta positiva, ma aveva, anche, fornito una lettura delle suddette norme volta a superarne le aporie intrinseche. Infatti, la chiave di lettura utilizzata dal Tar Lazio parte dalla considerazione secondo cui, con l'adozione della direttiva Concessioni e l'entrata in vigore del codice, la distinzione tra concessioni di lavori e concessioni di servizi ha perso rilevanza e la disciplina è, ormai, uniforme per le due fattispecie, fatte salve eventuali incompatibilità.

Nel ragionamento del Tar Lazio, in mancanza di una disposizione specifica sui requisiti del concessionario all'interno del Codice, la previsione dell'art. 95 del regolamento è applicabile anche alle concessioni di servizi e, dunque, la dimostrazione dei requisiti per l'esecuzione dei lavori non deve essere necessariamente richiesta nei bandi di gara per le concessioni di servizi, e gli eventuali lavori rientranti nell'ambito della concessione possono essere affidati con appalto a terzi, ai sensi del citato articolo 1, comma 2, lett. d) del Codice. Se tale conclusione non fosse condivisa, nella visione sistematica del Tar Lazio, quest'ultima disposizione non avrebbe alcuna funzione, visto che trova applicazione proprio nel caso del concessionario di servizi non qualificato per i lavori. Si noti, peraltro, che la direttiva Concessioni non contempla l'ipotesi dell'appalto a terzi, ma solo del subappalto.

Ma, straordinariamente, il Consiglio di Stato ha rigettato totalmente l'interpretazione del giudice di prime cure, aderendo alla tesi dell'Anac (soccombente in primo grado), che si basava sulla - pretesa - differenza tra una concessione mista (quale quella in esame) e una concessione di lavori, o di servizi. In particolare, Palazzo Spada ritiene, da un lato, che l'operatività dell'art. 95 del regolamento non possa essere estesa oltre il suo originario ambito di applicazione, ossia le concessioni di lavori, e, dall'altro, che, poiché la direttiva Concessioni è stata attuata dal Codice, quest'ultimo costituisca la sola norma da prendere a riferimento.

In tale ottica, la disciplina applicabile ai contratti misti, secondo la Sez. V del Consiglio di Stato, non può che essere quella di cui all'art. 28 del Codice, la quale richiede, in caso di affidamento di un contratto misto, che il concorrente possieda i requisiti di qualificazione e capacità «prescritti dal presente codice per ciascuna prestazione di lavori, servizi, forniture prevista dal contratto».

Seguendo questa logica, il Consiglio di Stato rigetta anche l'argomento del Tar circa il menzionato art. 1, comma 2, lett. d) del Codice, poiché, secondo la prospettazione del Giudice d'appello, questo articolo sarebbe applicabile solo ai concessionari di servizi "puri" e non ai concessionari di servizi "misti", e dunque varrebbe solo nella misura in cui i lavori da affidare a terzi fossero estranei all'oggetto iniziale del contratto.

Al di là della palese criticità di quest'ultima affermazione, rispetto al dato letterale della disposizione dell'art. 1 del Codice, che parla di lavori «strettamente strumentali alla gestione del servizio» - e che, dunque, difficilmente possono considerarsi estranei all'oggetto del contratto -, l'interpretazione contenuta nella pronuncia di appello in esame si rivela contraddittoria e illogica nelle sue conseguenze.

In primo luogo, il Consiglio di Stato considera unicamente l'art. 28 del Codice, ma non l'art. 169 dello stesso, dedicato specificamente ai contratti misti di concessione - e direttamente derivante dall'art. 20 della direttiva Concessioni -, che non riporta le stesse previsioni dell'art. 28 del Codice e, in particolare, non menziona la necessità di qualificarsi per ogni prestazione. Dalla lettura di tale articolo - e di tutta la direttiva Concessioni - emerge, di converso, un concetto molto chiaro: non esiste la tipologia della concessione mista, ma questo tipo di contratto è - di fatto - sempre di natura mista!

L'articolo 20 della direttiva Concessioni, pedissequamente riprodotto dal comma 1 dell'art. 169 del Codice, prevede, infatti, che «Le concessioni aventi per oggetto sia lavori che servizi sono aggiudicate in conformità delle disposizioni applicabili al tipo di concessione che caratterizza l'oggetto principale del contratto in questione». In altre parole, a secondo della rilevanza teleologica delle prestazioni, la concessione si configura come di lavori o di servizi.Tant'è che, a ben vedere, tutte le concessioni di lavori sono "miste", poiché la gestione di un'opera consiste sempre nell'erogazione di servizi, quanto meno, di disponibilità. Ciò evidenzia con ancora maggiore chiarezza la contraddittorietà e la fallacia delle argomentazioni di Palazzo Spada.

Infatti, se l'art. 95 del regolamento si applica alle concessioni di lavori - che, come detto, non possono che essere miste, poiché necessariamente contengono una quota di servizi -, nelle quali l'oggetto principale è individuato nella realizzazione dei lavori, richiedendo, alle lettere c) e d) del comma 1, la dimostrazione (salvo aumento dei requisiti economico-finanziari) dell'esperienza nei servizi previsti (necessariamente!) nella concessione di lavori e consentendo all'operatore economico di non eseguire i lavori con propria organizzazione, e dunque di non essere qualificato per i lavori, affidandoli a terzi, non si vede come, in una concessione (prevalentemente) di servizi, in cui, cioè, gli eventuali lavori sono meramente eventuali e, comunque, accessori rispetto all'oggetto principale, debba essere, invece, necessario qualificarsi per i lavori stessi.

Il risultato paradossale sarebbe che il concessionario di lavori può non essere qualificato per i lavori, mentre il concessionario di servizi deve esserlo. La contraddizione è talmente palese da non poter essere ignorata, come, invece, fa il Consiglio di Stato. Allora, delle due l'una: o si applica l'art. 95 del Regolamento a tutti i tipi di concessione – lavori e servizi, compreso ove la concessione di servizi contenga anche prestazioni accessorie riconducibili ai lavori –, oppure non si applica ad alcuno dei due. Ma, in tal caso, occorre abrogare l'art. 95 - che è stato, invece, volutamente mantenuto in vita all'adozione del Codice (art. 216, comma 14) - ed elaborare un sistema di qualificazione o, per lo meno, un riferimento più strutturato del mero art. 172 del Codice, il quale si limita a prevedere che le condizioni di partecipazione siano «correlate e proporzionali alla necessità di garantire la capacità del concessionario di eseguire la concessione, tenendo conto dell'oggetto della concessione e dell'obiettivo di assicurare la concorrenza effettiva».

In sostanza, la pronuncia d'appello in esame non fa che immettere ulteriore entropia in un sistema che appare viepiù confuso e illogico. Considerato il ruolo fondamentale che le concessioni e, in particolare, il Ppp ad iniziativa privata, rivestono in questo momento storico, in cui non solo l'effetto leva dell'investimento privato rispetto alle - pur ingenti - risorse pubbliche disponibili, ma anche l'apporto progettuale e imprenditoriale del privato si delineano sempre più chiaramente come strumenti irrinunciabili per consentire al Paese di raggiungere gli ambiziosi obiettivi del Pnrr (si veda il mio articolo "Appalti, più formazione e conoscenza per sfruttare le potenzialità della partnership pubblico-privata", Enti Locali&Edilizia, 5 agosto 2021), aggiungere elementi di incertezza al sistema appare veramente esiziale. Sarebbe, dunque, auspicabile che la riforma del Codice in itinere assuma una posizione autorevole e definitiva su questo tema così delicato e, tuttavia, negletto dei requisiti del concessionario (e del proponente), così da avere coordinate chiare e attendibili cui ispirarsi, a beneficio delle amministrazioni, degli operatori privati e, in definitiva, del Paese.

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