Urbanistica

Città metropolitane e pianificazione di indirizzo

Missione di grande rilevanza per il benessere del paese consegnata a poteri deboli e governance complicata

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di Francesco Domenico Moccia

La nascita delle città metropolitana nel contesto di una riforma costituzionale abbandonata e con la prudenza di non turbare troppo la geografia istituzionale sta condizionando la sua pianificazione che sconta la distanza tra l'ambizione della missione dello sviluppo sostenibile con la necessità di una governance multiscalare.

Oggetto di molti studi, da qualche decennio, il fenomeno metropolitano si era concretizzato in una precisa richiesta di ente pubblico, con la conseguente riorganizzazione del governo locale. La domanda aveva forte voci nel campo economico per quella parte di studiosi e di attori politici convinti del partenariato pubblico privato come strumento indispensabile dello sviluppo economico. Nel campo della geografia l'articolazione spaziale metropolitana aveva alimentato un dualismo molto fertile nelle sue potenzialità conoscitive e capace di evidenziare le sempre mutevoli organizzazioni dello spazio dove si andavano a concentrare una quota sempre crescente della popolazione. Alla tradizionale interpretazione areale si era aggiunta quella reticolare sottolineando come centrale fosse il ruolo delle relazioni e come queste dipendessero meno dalla distanza che non dagli scambi e sinergie tra funzioni complementari. Le ultime coniugazioni post-metropolitane hanno sottolineato e rappresentato come questa realtà abbia una dinamica evolutiva molto accelerata e costituisca il nodo geografico dell'economia globalizzata. Si tratta di un insieme di conoscenze che problematizzano la collocazione nel tempo e dello spazio delle metropoli e ne rendono sfuggente la loro perimetrazione.

Angustiati da queste problematiche, la decisione gordiana della legge Delrio suscitò un'ondata di critiche nella comunità scientifica, ma ebbe il merito di sbloccare una impasse che durava dall'iniziativa legislativa di Gava e la cui inerzia non avrebbe tardato a manifestarsi, dopo che già nella legge aveva frapposto tutte le cautele del caso che non tarderanno a rivelarsi come quelle trappole in cui si sarebbe dovuto imbrigliare il dispiegarsi dell'azione del nuovo ente. In primo luogo le modifiche alla geografia istituzionale erano contenute al minimo indispensabile, con il semplice cambiamento di nome delle Provincie prescelte ad assumere la dizione metropolitana, così da non turbare tutto il resto dell'assetto degli enti intermedi. Allo stesso tempo non si minacciava la leadership dei comuni capoluoghi a cui le Provincie avevano sempre fatto da bilanciamento, aggregando i comuni minori e difendendoli da un predominio basato sui numeri della popolazione rappresentata e sulla concentrazione delle funzioni rare. Quando il sindaco del capoluogo assumeva la funzione di sindaco metropolitano andava a consolidare una aspirazione perseguita ed ormai non più ostacolata.

L'autonomia statutaria avrebbe potuto disegnare una variabilità ed adattabilità dell'ente considerata la varietà della lista stabilita dal governo entro la quale trovano posto città medie come Reggio Calabria al fianco di città che si potrebbero considerare se non globali, certamente europee come Milano. Di fatto, ha generato una qualche differenza di impostazione del senso del governo metropolitano ma, allo stesso tempo, non è riuscita a liberarsi del tutto dell'inerzia delle pratiche con le quali aveva consolidato la propria identità come Provincia e che venivano traghettate con continuità ancora nelle nuova condizione. Non è privo di effetti il contesto all'interno del quale nasce questa riforma ammnistrativa perché si configura come un primo passo all'interno di un percorso che prevede modifiche delle norme costituzionali con le quali si giungeva all'abolizione delle Province, secondo un'idea di semplificazione dei livelli di governo in cui le 10 città metropolitane scelte dal governo (a cui si aggiungono quelle indicate dalla regioni autonome) avrebbero assunto il rilievo di unico ente intermedio. Entro questa cornice si giustificava anche il carattere di ente di secondo ordine a cui sono legati concetti di economia per la scelta e gestione della rappresentanza. Ancora più spiazzante è la circostanza che quel contesto è profondamente cambiato con la sconfitta referendaria delle riforma costituzionale ed ha lasciato in vita Province devitalizzate ma gravate da responsabilità mentre le città metropolitane hanno mantenuto risorse umane e materiali (che le Provincie hanno perduto) sul cui impiego sono rimaste alquanto disorientate.

Le funzioni attribuite alla città metropolitana, nel disegno del legislatore statale, erano essenziali. È dato loro il compito di redigere un piano strategico come atto d'indirizzo per l'ente e per i comuni inclusi nella città metropolitana; un piano territoriale generale indirizzato prioritariamente alla reti di comunicazione ed ai servizi; di coordinare i servizi, i trasporti e mobilità, lo sviluppo economico, i sistemi di informatizzazione e digitalizzazione. Se qualcuno si aspettava che le Regioni avrebbero potuto rafforzare le città metropolitane con competenze delegate non deve meravigliarsi di essere deluso. Non è mancata qualcuna che le ha sottratto funzioni già attribuite quando era Provincia. In senso metaforico richiama l'immagine del vaso di coccio in mezzo a quelli d'acciaio, contesa non solamente dai ranghi superiori ma anche dalla difesa dell'autonomia di quelli inferiori: dei comuni. Se lo scopo della sua istituzione era quella che reclamavano gli economisti, ovvero di trovare un ente di governo dello sviluppo, ci si sarebbe aspettato che in alcune materie a questo scopo necessarie, avesse preso pieno potere in modo da esercitare direttamente e autorevolmente le politiche pubbliche necessarie. Invece il legislatore si è orientato verso un soggetto che avrebbe dovuto esercitare un azione d'indirizzo ed orientamento, in special modo nei confronti dei comuni, per stimolare azioni cooperative orientate agli interessi custoditi a livello metropolitano.

Passando da queste considerazioni di ordine generale alla pianificazione, attività primaria nell'elenco delle competenze, la continuità con il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP) del Piano Territoriale Generale (PTG) o spesso chiamato anche Piano Territoriale Metropolitano (PTM), è ribadita più volte sia nella forma che nel contenuto e si colloca proprio in questo solco dell'indirizzo, appena un grado più forte del coordinamento. Dall'analisi semantica dei due termini a confronto, possiamo ricavare un accentuazione della soggettività nell'organizzazione che imprime indirizzo – anche se questo è comunque rivolto ad altri, presso i quali risiede l'azione – laddove l'organo che esercita il coordinamento a questa soggettività risulta estraneo, perché si colloca presso chi è coordinato, non presso il coordinatore. Un tale discorso potrebbe sviluppare con maggiore finezza il livello di autonomia in termini dottrinali ma non coincide con le prassi dove tendono a prevalere le routine specialmente quando viene a mancare un impulso deciso di leadership innovative.

Il panorama italiano conferma ancor di più della continuità, addirittura della stasi. Dove i PTCP erano vigenti non si è avvertita un'urgenza a passare ad un nuovo strumento quale il PTM; dove ancora non erano stati approvati, l'introduzione del nuovo piano è stata opportuna giustificazione per non concludere iter avviati del precedente PTCP. Nel primo caso la somiglianza giustifica il ricorso al nuovo strumento. Nel secondo la differenza giustifica la chiusura di una procedura in corso per avviarne una nuova. Il risultato resta lo stesso ed alimenta un'ondata crescente di elusione della pianificazione.

Anche nei contenuti i PTM si mantengono sulle materie dei PTCP a fronte di una missione che dovrebbe essere cambiata. I primi avevano trovato spazio nella gestione degli spazi aperti, regolamentazione delle zone agricole, tutela delle aree naturali e nella costruzione delle reti ecologiche. Hanno potuto sviluppare questo filone rispondendo alle domande di riduzione del consumo di suolo, di resilienza territoriale, di sostenibilità ambientale. Si va consolidando una convergenza verso l'oggetto ‘spazio fisico', prevalentemente extraurbano, da governare con un ricorso a strumenti regolativi, di preferenza. Viene da pensare che ad imboccare questa direzione abbia contribuito la separazione del momento strategico in uno strumento diverso, più praticato e frequentemente elaborato. Tuttavia, nel momento conoscitivo, replicando anche qui una fase iniziale dei PTCP, la portata dei PTM spazia in un'ampiezza disciplinare onnicomprensiva, in alcuni casi, e da giudicare più che sufficiente a coprire le intere problematiche di carattere metropolitano.

Per avviarsi verso la conclusione con note più positive, va registrato, al contrario, il successo dei piani strategici che smentisce le perplessità degli esperti. La critica alla loro portata triennale, come inadeguata allo strumento, si è rivelata uno stimolo cosicché, a fronte di qualche piano territoriale appena adottato, abbiamo anche due generazioni di piani strategici approvati. Né, fatte le dovute eccezioni, la breve durata ha procrastinato visioni ampie e di lungo periodo le quali sembrano talmente insite nello stile di pianificazione che s'impongono anche rispetto a richieste di operatività immediata e fattibilità degli obiettivi. Per quest'ultimi, il ricorso ad una governance multiscalare sembra d'obbligo. Le città metropolitane si confermano ente d'indirizzo la cui operatività non può fare a meno di Comuni e Regioni.

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