Concorsi, nessuna discrezionalità sulla equipollenza tra titoli di accesso
L'equivalenza tra titoli di studio deve essere prevista da una norma e non può essere desunta in modo implicito dall'ente in fase di verifica
Se il bando di concorso prevede il possesso di uno specifico titolo di studio, questo requisito è da intendersi tassativo. Eventuali equipollenze del titolo possono essere previste solo da specifiche norme; non possono essere frutto di valutazioni «sostanziali» dell'ente che gestisce le procedure. Ai concorsi pubblici neppure è applicabile la cosiddetta «sanatoria legale» - normata per le abilitazioni professionali - secondo cui chi è ammesso alle prove d'esame con riserva, se poi le supera, resta valido vincitore. Con la sentenza 5460/2020, il Consiglio di Stato ha precisato che in ragione delle insite difformità tra i percorsi formativi, nemmeno può essere chiamata in soccorso la cosiddetta «teoria della continenza» secondo la quale un titolo di studio quadriennale - per ciò stesso - ne assorbirebbe uno similare più breve, triennale.
Equipollenza «per legge» ed equipollenza «sostanziale»
Investito della questione a seguito della sentenza di rigetto del Tar, Palazzo Spada ha innanzitutto chiarito che l'equipollenza tra titoli di studio sussiste solo se espressamente prevista da un atto normativo e non può essere desunta in modo implicito o analogico dall'ente in sede di accertamento dei requisiti d'accesso. Quando un bando richiede il possesso di un determinato titolo di studio senza prevedere il o i titoli a esso equipollenti, non è consentito alcun potere valutativo.
Più precisamente, ove il bando ammetta come requisito di ammissione un determinato titolo di studio, o altro «in sostanza» equipollente, l'amministrazione potrà procedere a una valutazione di equipollenza concreta; qualora invece il bando richieda un determinato titolo di studio o quelli a esso equipollenti «per legge», siffatta determinazione dovrà essere intesa in senso inderogabile. Coerentemente va considerata illegittima la clausola del bando che disponga l'equipollenza fra titoli di studio in assenza di una norma di legge che fissi i contenuti, le caratteristiche e la durata dei corsi di studio in relazione alle distinte finalità formative che ciascuno di essi persegue, prevenendo in questo modo il rischio di valutazioni rimesse, caso per caso, alle singole amministrazioni.
Il principio di «sanatoria legale»
Il Consiglio di Stato ha poi affrontato il tema dell'applicabilità ai concorsi pubblici del cosiddetto «principio di sanatoria legale» ispirato alla tutela dell'affidamento del candidato risultato vincitore a seguito di ammissione con riserva di ulteriori accertamenti. Ebbene questo principio non è applicabile ai concorsi pubblici - ha chiarito il giudice amministrativo - costituendo criterio codificato per la speciale disciplina relativa all'accesso alle libere professioni senza alcun riferimento ai concorsi per l'accesso al pubblico impiego. E si badi bene: anche nell'ambito delle abilitazioni professionali, il conseguimento di queste ultime è riconosciuto solo ai candidati «già» in possesso dei titoli specifici per partecipare alle prove.
Il «criterio della continenza»
Infine il Consiglio di Palazzo Spada ha chiarito che la carenza del titolo non può neppure essere superata per mezzo del «criterio della continenza» ossia dell'assorbimento di questo titolo mancante in altro diverso sebbene analogo e comunque di durata di studi maggiore. Nulla da fare secondo il massimo giudice amministrativo: nel silenzio della legge detto canone è insufficiente a giustificare una parificazione «fatta in casa» dall'ente, peraltro in contrasto col proprio stesso bando.