Concorsi pubblici, la Corte di Cassazione esclude la turbativa d'asta
Fermo richiamo della Corte ai principi di legalità e tassatività. Il legislatore deve aggiornare la disciplina alla nuova realtà del Codice appalti
Dopo importanti pronunce che hanno ritenuto inapplicabili i reati di turbativa tanto in caso in cui manchi una gara in senso tecnico (essendovi un mero confronto tra le offerte o i curricula dei candidati: Cassazione 6603/2020), quanto in caso di affidamento diretto (Cassazione 5536/2022), la Cassazione torna ad occuparsi delle fattispecie poste a tutela della concorrenza nelle pubbliche gare, che hanno registrato – negli ultimi anni – un crescente protagonismo, di chiaro segno espansivo, a tutto scapito – tuttavia – del rispetto dei principi di tassatività e di determinatezza in materia penale ed a scapito, soprattutto, dei soggetti coinvolti, vista la gravosità delle conseguenze, già sul piano extrapenale, anche della semplice iscrizione nel registro delle notizie di reato. In questa prospettiva si apprezza la decisione 26225/2023, con la quale la Corte ha escluso l'applicabilità delle ipotesi di turbativa (articoli 353 e 353 bis del Codice penale) ai pubblici concorsi, adempiendo nel modo più alto, al compito nomofilattico che le è proprio.
Due argomenti – tanto semplici quanto decisivi – puntellano questa condivisibile conclusione.Anzitutto, il necessario rispetto della ratio dell'incriminazione, autentico starting point di ogni percorso ermeneutico: l'interesse cui le norme intendono assicurare protezione – sottolineano i giudici – è il corretto espletamento delle «sole procedure indette per l'affidamento di commesse pubbliche o per la cessione di beni pubblici»; e non è fungibile con le istanze che pur vengono in rilievo in materia di assunzione, o mobilità, del personale, tutti procedimenti che d'altro canto, con le gare pubbliche, mai hanno avuto una disciplina comune.In secondo luogo – ma prima e più in alto – il fermo richiamo al principio di legalità/tassatività. Se la littera legis è chiara, nel riferirsi a chi turba «gare nei pubblici incanti» e «licitazioni private per conto di pubbliche amministrazioni», alle parole non si può torcere il collo, sembra dire la Corte, in perfetta sintonia anche con importanti, recenti decisioni della Corte costituzionale che avevano ribadito, in materia penale, il ripudio per ogni forma di interpretazione analogica in malam partem (Corte costituzionale 98 del 2021).
Del resto, proprio tale principio, in questo ambito, è stato spesso esposto a folate interpretative "criptoanalogiche", sospetto che sembra per vero aleggiare anche sull'orientamento che ritiene applicabile gli articoli 353 e 353 bis alle "gare ufficiose e informali". In ogni caso, con questa nuova pronuncia, la Corte sembra anche ribadire, in filigrana, l'argine che deve sempre separare gli spazi ermeneutici rimessi all'interprete dal campo inaccessibile delle scelte di politica criminale, e che preclude sempre al giudice di farsi carico di malintesi compiti di supplenza per rimediare ad asseriti limiti applicativi della norma. Sarà semmai compito del legislatore, dunque, metter mano a uno strumentario che palesa evidenti segni di obsolescenza, anche nel lessico, per aggiornarlo alla nuova realtà, e a un diritto amministrativo profondamente mutato che – specie nel nuovo codice dei contratti pubblici – ha lasciato ampio margine a interventi di affidamento diretto, gare informali e procedure dialogiche e "concordate" tra la Pa e i privati: basti pensare alla procedura competitiva con negoziazione, al dialogo competitivo e al partenariato per l'innovazione, nonché la procedura negoziata senza pubblicazione per le ipotesi tassativamente previste (articolo 70 del Dlgs 36/2023), tutti ambiti dove le vecchie fattispecie di turbativa – a fare sul serio con il nullum crimen sine lege - faticheranno a essere applicate.
A questo riguardo, si potrà pur dire che questa decisione – perimetrando i reati di turbativa anche alla luce dei chiariti margini di applicabilità del reato di abuso d'ufficio (articolo 323 del Codice penale) – dovrebbe far riflettere sull'opportunità della scelta abrogativa della fattispecie; d'altro canto, se i fondamentali principi richiamati nella decisione – e l'impegno in favore di una lettura "tipizzante e tassativizzante" – fossero stati davvero seguiti nell'applicazione e nell'interpretazione dell'articolo 323, specie nelle contestazioni accusatorie, nessuno avrebbe mai invocato l'esigenza di cancellare dal Codice questo reato.