Fisco e contabilità

Il «canone» è un tributo incostituzionale senza criteri rigidi per limitare gli aumenti

di Chiara Sozzi e Giuseppe Zizzo

Nonostante le difficoltà denunciate dai Comuni, il 1° gennaio è entrato in vigore il «canone patrimoniale di concessione, autorizzazione o esposizione pubblicitaria» disciplinato dai commi 816 e seguenti della legge 160/2019. L'intervento si pone l’apprezzabile obiettivo di razionalizzare un frastagliato, e a tratti disorganico, panorama di tributi, canoni e prelievi su due aree: l'occupazione di suolo pubblico e la diffusione di messaggi pubblicitari. Le modalità rischiano però di produrre un’eterogenesi dei fini, e di esporre il nuovo canone al forte rischio di incostituzionalità.

Nonostante sia invalso l’appellativo di «unico», il canone sviluppa due distinti regimi, posti in rapporto di alternatività dal comma 820, che si differenziano quanto a presupposto, soggetti passivi e criteri del prelievo, finendo per ricalcare i due gruppi di entrate da sostituire. Se rispetto al «canone dovuto per le occupazioni» può ravvisarsi qualche margine di dubbio, la natura tributaria del «canone dovuto per la diffusione dei messaggi pubblicitari» è difficilmente contestabile. In base a una costante giurisprudenza il nomen iuris è ininfluente ai fini della qualificazione, sicché la circostanza che il comma 816 utilizzi l’ambiguo termine «patrimoniale» può serenamente essere messa da parte. È quindi agevole constatare che nella disciplina del canone sono riscontrabili tutti i tratti che sono stati ritenuti decisivi dalla Corte Costituzionale per qualificare il Cimp come tributo (sentenza 141/2009). Una volta riconosciuta la sua natura tributaria (quanto meno in relazione alla pubblicità), il canone rientra tra le prestazioni patrimoniali imposte (articolo 23 della Costituzione) e deve fare i conti con il principio di legalità.

La Consulta ha ripetutamente affermato che «l'espressione ”in base alla legge” … implica che la legge, che attribuisce a un ente il potere di imporre una prestazione, non lasci all'arbitrio dell'ente impositore la determinazione della prestazione». La legge deve contenere «criteri idonei a delimitare la discrezionalità dell'ente impositore nell'esercizio del potere attribuitogli» (sentenza 4/1957), potendo questi essere anche desumibili «dalla composizione o funzionamento dell’autorità competente, dalla destinazione della prestazione, dal sistema procedimentale che prevede la collaborazione di più organi» (sentenza 236/1994). Nella normativa sul canone non è però rinvenibile alcun criterio idoneo a evitare che la discrezionalità degli enti impositori trasmodi in arbitrio. Se la prima parte del comma 817 prevede che «il canone è disciplinato dagli enti in modo da assicurare un gettito pari a quello conseguito dai canoni e dai tributi sostituiti dal canone», la sua seconda parte vanifica questa indicazione, facendo «salva, in ogni caso, la possibilità di variare il gettito attraverso la modifica delle tariffe». Non è stabilita la destinazione delle risorse, né è prevista una procedura per garantire oggettività nella decisione. Eppure il problema non è nuovo. Con la sentenza 36/1959 la Consulta dichiarò l’illegittimità di un antenato del canone sulla pubblicità proprio per l’assenza di «alcun criterio idoneo a delimitare l’ambito del potere discrezionale del Consiglio Comunale» sulle tariffe. In un momento così difficile, è necessario che gli interventi legislativi, se attuati in nome della razionalizzazione e semplificazione del sistema, siano in grado di realizzare questi obiettivi. E allora, si disponga in tempi brevi il rinvio dell'entrata in vigore del canone (ripristinando provvisoriamente la normativa previgente), e si colga l’occasione della riforma per una rivisitazione più attenta e calibrata della materia.

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