Il cartellino delle presenze non è atto pubblico
Il «cartellino» delle presenze negli uffici della pubblica amministrazione non è un atto pubblico. Così la Corte di cassazione, con la sentenza n. 41426 depositata ieri, ha annullato a due dipendenti comunali “infedeli” la condanna per il reato di falso ideologico commesso da privato in atto pubblico (articolo 483 del Codice penale). I dipendenti timbravano il cartellino, con modalità tali da attestare falsamente la loro presenza negli uffici comunali. Ma se è vero che così commettevano il reato di truffa aggravata ai danni dell'ente locale non è vero che realizzassero un falso in atto pubblico. Cartellini o badge rilevano, infatti solo nel rapporto con il datore di lavoro, rapporto che nella Pa è ormai di diritto privato. Cioè sono privi di rilevanza esterna non essendo manifestazione dichiarativa o di volontà attribuibile alla pubblica amministrazione.
La Corte di cassazione, confermando che l'alterazione delle presenze è un raggiro o un artifizio in grado di trarre in inganno il datore di lavoro, ha riconosciuto la legittimità della condanna per truffa aggravata, peraltro non impugnata dai ricorrenti in Cassazione. Ma ha escluso - smentendo il giudice di merito e un minoritario orientamento in Cassazione - che sia ravvisabile qualsiasi ipotesi di falso in atto pubblico compresa quella aggravata prevista dall'articolo 479 del Codice penale quando l'autore è un pubblico ufficiale. Infatti, è la stessa natura privatistica del cartellino «marcatempo» a rendere ininfluente la verifica se il dipendente rivesta o meno il ruolo di pubblico ufficiale. Mentre nella truffa commessa dai ricorrenti contro il datore di lavoro rileva sicuramente la natura pubblica di quest'ultimo e delle risorse con cui paga i dipendenti, facendo scattare l'aggravante prevista dall'articolo 640, comma 2, del Codice penale.
La sentenza della Corte di cassazione penale n. 41426