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La natura pubblicistica della Tari e l’obbligo dichiarativo

di Matteo Vagli (*) Rubrica a cura di Anutel

Sempre più frequentemente ci troviamo di fronte a pronunciamenti della Corte di cassazione che ripercorrono la “storia” del prelievo sui rifiuti e dei vari acronimi con cui nel tempo lo stesso è stato chiamato: filo conduttore comune è sempre la natura pubblicistica del prelievo indipendentemente dal “nomen iuris” utilizzato.

Tuttavia, accanto a questo filo conduttore, la Corte, di volta in volta, ha espresso anche dei corollari significativi che forniscono un aiuto importante nella risoluzione dei casi pratici

È il caso, ad esempio, dell’ordinanza n. 14816 del 2 giugno 2025 dove, accanto alla natura autoritativa e non sinallagmatica della Tari, viene ribadito a chiare lettere il principio della necessità della dichiarazione Tari per fruire di una qualsiasi riduzione o agevolazione, la necessità di procedere a sanzionare per omessa dichiarazione ogni annualità; l’applicazione del cumulo giuridico.

La natura della Tari

Nel solco di un orientamento ormai consolidato la Corte ha affermato che “sul punto l’orientamento di questa Corte ha espresso i seguenti principi, nel segno di una sostanziale e complessiva continuità normativa, di natura tributaria, tra Tarsu, Tia, Tares, Tari, aventi tutte struttura autoritativa e non sinallagmatica, con conseguente estensione dei principi informatori dell’imposizione e generale doverosità della prestazione, caratterizzata da una forte impronta pubblicistica (così Cassazione n. 19631/2024, che richiama Cassazione n. 21490/2022; Cassazione n. 8088/2020 e Cassazione n. 8089/2020)”.

Nessun dubbio, quindi, circa la natura tributaria del prelievo che prescinde dall’effettivo utilizzo dell’immobile e da qualsiasi volontà del contribuente.

Conseguenza di questa affermazione è l’uso degli strumenti tipici del diritto pubblico, nel caso di specie del diritto tributario, per delineare, da un lato, gli importi dovuti e, dall’altro, per andarli a recuperare in caso di mancato pagamento.

Questa impostazione di fondo crea un forte scostamento e differenziazione con la gestione dei cosiddetti “servizi a rete” quali luce, gas e acqua che seguono regole e principi ispirati al diritto privato dove, comunque, la volontà dell’utente ha un suo valore fondante: la cessazione del servizio può essere richiesta in qualsiasi momento senza dover documentare alcunché.

Ed è partendo da questa differenza fondamentale che, spesso, si trovano difficoltà applicative di quella che dovrebbe essere la normativa “secondaria” (intendendo per normativa primaria esclusivamente la legge nazionale vigente in ambito tributario) che Arera pone in essere con le sue deliberazioni improntate a una visione di gestione del servizio meramente privatistica.

Un esempio su tutti, derivante anche dalla modifica dello Statuto dei diritti del contribuente, è la relazione tra l’obbligo sancito dagli articolo 13 e seguenti della deliberazione Arera n. 15/2022/R/Rif, cosiddetta TQRIF, di risposta ai reclami degli utenti del servizio e il conseguente monitoraggio sui tempi di risposta ai sensi degli articoli 53 e seguenti, con il principio di autotutela obbligatoria e facoltativa di cui agli articoli 10 quater e quinquies della legge 212/00.

Nella pratica succede spesso che quello che viene inquadrato come reclamo dalla deliberazione n. 15/2022 Arera non è altro che una richiesta di autotutela che il contribuente avanza nei confronti del soggetto attivo del tributo in quanto ritiene non corretta, per qualunque ragione, la liquidazione del dovuto da pagare.

Ebbene, se, ai sensi dell’articolo 10 quater (autotutela obbligatoria), la mancata risposta al contribuente può essere, entro determinati limiti temporali, impugnata davanti al giudice tributario, nei casi delineati dall’articolo 10 quinques (autotutela facoltativa) la mancata risposta non comporta alcun diritto per il contribuente e può rappresentare una vera e propria difesa per l’Ente in quanto tale silenzio non è impugnabile: sotto questo punto di vista appare poco comprensibile che l’esercizio di questa facoltà, previsto dalla normativa primaria, possa comportare delle conseguenze negative ai sensi di una normativa secondaria.

L’obbligo dichiarativo

Nel caso esaminato dalla Corte, è stata affrontata la tematica delle area scoperte operative all’interno delle utenze non domestiche.

Interessante è la struttura della medesima Sentenza dove la Corte ha espresso dei principi chiari in ogni capoverso:

- sulla base di questo quadro normativo va quindi affermato che ai fini della tassabilità delle aree scoperte rileva esclusivamente la natura operativa delle stesse, intesa quale idoneità a produrre rifiuti ulteriori rispetto al locale e all’area principale già tassata e di cui, tenuto conto della destinazione funzionale, non rappresentano una mera estensione;

- la tassazione è esclusa solo per le aree scoperte che, ai sensi del codice civile, presentano la condizione della pertinenza soggettiva e oggettiva rispetto al locale o all’area principale e purché non siano operative; l’operatività consiste nell’idoneità a produrre rifiuti ulteriori rispetto al locale e all’area principale che già versa il tributo e non rappresenta dunque un’ulteriore estensione dell’attività svolta;

- per tutti i prelievi sui rifiuti opera, quindi, la presunzione di produttività che costituisce una condizione oggettiva fondata sulla mera disponibilità di un locale o area scoperta operativa idonea all’uso, e ai fini dell’assoggettabilità a tributo rileva la mera idoneità di locali e aree alla produzione di rifiuti, piuttosto che l’effettivo utilizzo del servizio;

- queste esclusioni non sono, tuttavia, automatiche, perché ponendo la norma una presunzione “iuris tantum” di produttività, superabile solo dalla prova contraria del detentore dell’area, dispone altresì che le circostanze escludenti la produttività e la tassabilità siano dedotte “nella denuncia originaria” o in quella “di variazione”, e siano debitamente riscontrate in base a elementi obiettivi direttamente rilevabili o a idonea documentazione;

- il presupposto impositivo rimane correlato alla occupazione o alla conduzione di locali e aree scoperte, adibiti a qualsiasi uso privato, così che, pur valendo il principio secondo cui è l’Amministrazione a dover fornire la prova della fonte dell’obbligazione tributaria, è onere del contribuente dimostrare la sussistenza delle condizioni per beneficiare della riduzione della superficie tassabile ovvero dell’esenzione, trattandosi di eccezione rispetto alla regola generale del pagamento dell’imposta sui rifiuti urbani nelle zone del territorio comunale.

La Corte di cassazione chiude, quindi il suo ragionamento affermando che “Per questa via e in conclusione, l’omissione dell’obbligo dichiarativo ha precluso ogni prospettiva di esonero”.

Ad abundantiam, si dice anche che “L’accertata violazione dell’obbligo dichiarativo ha, difatti, escluso, a monte, ogni ipotesi di sottrazione dalla tassazione delle aree ritenute esenti”.

Netto appare il principio espresso: se il contribuente non ha adempiuto all’obbligo dichiarativo non potrà accampare alcun tipo di esclusione o riduzione di superficie tassabile ancorché spettante.

Ed anche questo principio si pone in un solco già ben delineato dalla Suprema Corte (tra le tante Cassazione n. 25520/2024; n. 23584/2023; n. 25435/2023) spesso, tuttavia, ancora poco considerato dalle Corti di merito.

Il cumulo giuridico

L’unica censura che la Corte adotta alla sentenza di secondo grado è relativa all’applicazione dell’articolo 12 comma 5 del Dlgs 472/97, ovvero l’applicazione del cumulo giuridico rispetto a quello materiale.

Partendo dall’assunto che “ad ogni anno solare corrisponde una obbligazione tributaria, per cui, qualora la denunzia sia stata incompleta, infedele, oppure omessa, l’obbligo di formularla si rinnova di anno in anno, con la conseguenza che l’inottemperanza a tale obbligo, sanzionata dall’articolo 76 del citato decreto, comporta l’applicazione della sanzione anche per gli anni successivi al primo” la Corte ritiene che:

“L’orientamento progressivamente consolidatosi in tema di Ici, ma con applicazione valevole anche in tema di Tares, è nel senso di riconoscere il principio affermato da questa Corte (Cassazione n. 11432/2022; conf. Cass. n. 22477/2022), secondo cui in ipotesi di più violazioni per omesso o insufficiente versamento dell’imposta relativa a uno stesso immobile, conseguenti a identici accertamenti per più annualità successive, si applica il regime della continuazione attenuata di cui all’articolo 12, comma 5, del Dlgs n. 472 del 1997, che consente di irrogare un’unica sanzione con il relativo aumento”

“In particolare, per effetto dell’articolo 12, comma 5, in ipotesi di violazioni riguardanti periodi di imposta diversi, l’ufficio in sede di notifica dell’atto di irrogazione deve procedere alla ricostruzione di un’unica serie progressiva, che comprende anche le violazioni precedentemente considerate e contestate, e deve tenere conto, nel determinare l’importo della sanzione, di quello già indicato nell’originario atto notificato”

“In particolare, per effetto dell’articolo 12, comma 5, in ipotesi di violazioni riguardanti periodi di imposta diversi, l’ufficio in sede di notifica dell’atto di irrogazione deve procedere alla ricostruzione di un’unica serie progressiva, che comprende anche le violazioni precedentemente considerate e contestate, e deve tenere conto, nel determinare l’importo della sanzione, di quello già indicato nell’originario atto notificato”.

“L’articolo 12, comma 5, citato ha introdotto lo stesso principio in campo processuale, stabilendo che, quando siano pendenti più giudizi, non riuniti, anche dinanzi a giudici diversi e sempre con riferimento ad una serie di violazioni suscettibili di unificazione, il giudice a cui è devoluta la cognizione dell’ultimo degli atti di irrogazione per una delle violazioni coinvolte può procedere, a seguito di ricognizione di tutte le sentenze intervenute nei singoli processi non riuniti, a una ricostruzione unitaria, ove ne sussistano i presupposti, dell’intera serie di violazioni, secondo le regole fissate dall’articolo 12, rideterminando quindi la sanzione unica applicabile”.

Con questo ragionamento la Corte sembra riassestarsi di nuovo sulla posizione dell’applicazione del cumulo giuridico anche per quelle posizioni di omesso o insufficiente pagamento sulle quali vi erano state pronunce ondivaghe. Naturalmente si tratta di sanzioni comminate prima del 1 settembre 2024 e, come tali, rientranti nell’applicazione del vecchio testo dell’articoo 12 comma 5 del Dlgs 472/97, riscritto, poi, dal Dlgs 87/2024.

L’elemento che la Corte mette in evidenza è non solo sostanziale, ovvero la necessità da parte dell’ufficio preposto di effettuare correttamente il calcolo delle sanzioni anche nel caso in cui vengano emessi più atti, ma anche processuale in quanto è il Giudice che, in assenza di un concreto ed effettivo calcolo svolto dall’ufficio, può e deve applicare il cumulo giuridico riformando l’aspetto sanzionatorio dell’avviso di accertamento oggetto di contenzioso.

(*) Docente Anutel

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