Svuotare il mare con il cucchiaio: uffici tributi comunali troppo piccoli
Siamo in vista dell’ultimo dei decreti legislativi attuativi della delega fiscale, legge 111 del 9 agosto 2023; una riforma dalle apprezzabili finalità che sta modificando il panorama tributario nazionale sotto diversi aspetti. Non vi ha trovato spazio, purtroppo, la soluzione di un elemento di criticità di crescente evidenza, ossia l’inadeguata scala dimensionale degli uffici tributi di migliaia di Comuni italiani.
Il grande sviluppo dell’autonomia tributaria degli enti locali risale alla fine degli anni ’90, alla riforma del titolo V della Costituzione del 2001 e poi alla Legge 42/2009; questo slancio è stato più volte limitato negli anni dalle molte urgenze della finanza statale. Il quadro attuale vede i Comuni gestire Imu, Tari, Addizionale Irpef come tributi di maggior gettito, oltre all’imposta di soggiorno e altre poste minori che completano un pacchetto da circa 42 miliardi annui, pari al 2 per cento del Pil, che non è affatto poco.
Dal punto di vista industriale, ognuno di questi tributi comporta per il singolo Comune l’organizzazione, la gestione e il controllo di una vera e propria catena di montaggio, che si muove con input annuali e uno sviluppo pluriennale del processo produttivo complessivo. L’assembly line parte con la definizione di regolamenti, aliquote e detrazioni e prosegue con le successive attività: di informazione e comunicazione ai contribuenti; di acquisizione, implementazione e aggiornamento dei software gestionali; di riscossione ordinaria e front office fisico e virtuale; di accertamento dell’evasione totale e dei mancati pagamenti, con notifica degli atti e applicazione delle dovute sanzioni; di riscossione coattiva e dei suoi strumenti di esecuzione; del contenzioso e dei relativi strumenti deflattivi.
Da una constatazione empirica, sembra che le azioni comunali in campo fiscale siano poco efficaci quando la propria macchina non raggiunge almeno un volume di gestione di qualche decina di migliaia di contribuenti. È un fatto che negli enti minori, anche per le varie limitazioni assunzionali, spesso gli operatori tributari sono uno o due; magari sono impegnati anche sul versante contabile, con le tassative scadenze della contabilità finanziaria armonizzata nonché, presto, con la riforma Accrual prevista dal Pnrr. Per loro il tempo per formarsi, eseguire e controllare ciascuno dei 7-8 stadi di lavorazione dei tributi sopra delineati semplicemente non esiste. Si trovano così a poter affrontare con una certa attenzione solo le prime fasi mentre le successive, fra cui la riscossione coattiva, sono frequente oggetto di inciampi e complessità e finiscono per essere trascurate, se non talvolta ignorate, con tanti saluti all’equità fiscale e alla certezza del gettito. Anche quando il Comune affida a terzi specializzati fasi o sotto-fasi dell’azione tributaria non mancano i problemi, spesso dovuti alla difficoltà di coordinare l’intero processo.
Il risultato è che la filiera dei tributi locali - nel suo complesso e con le dovute eccezioni - non brilla per efficienza. A rendiconto 2023, il fondo crediti di dubbia esigibilità (Fcde) si è mangiato il 56 percento dell’avanzo di amministrazione dei Comuni, ossia circa 34 miliardi su 61 (fonte OpenBDAP). L’Fcde, come noto, si basa di norma sulla media delle riscossioni dell’ultimo quinquennio. Una delle conseguenze è che nei preventivi 2024 i Comuni hanno l’8,3 percento della spesa corrente “paralizzata” dall’accantonamento al Fcde (quasi 6 miliardi su 70), con numerosi enti medio-piccoli che viaggiano ben al di sopra del 20 percento. Si tratta peraltro di un indicatore molto parziale, in quanto non tiene conto dell’importante fetta di evasione che non si è riusciti ad accertare.
L’inestimabile e trentennale opera di supporto associativo di Anutel - che ha saputo mettere in rete la formazione e un supporto generalizzato a molte delle funzioni sopra descritte - testimonia che non manca certo l’impegno “dal basso” degli operatori.
Tuttavia “piccolo è bello” appare un principio sempre meno applicabile ai tributi locali in un mondo fortemente digitalizzato, interconnesso e dominato da imprese di dimensioni colossali. Non si vuole sostenere qui la preferenza verso l’una o l’altra forma di gestione fra quelle previste dall’articolo 52 del Dlgs 446/1997 e dalle successive norme in materia (gestione diretta, società in house, Ader, società iscritte all’albo eccetera). Si sottolinea semplicemente l’inadeguatezza dimensionale di migliaia di uffici tributi, impegnati quotidianamente a svuotare con il cucchiaio il mare dell’evasione fiscale italiana.
Come spunto positivo ricordiamo che, negli stessi decenni in cui si è sviluppata l’autonomia impositiva locale, i Comuni hanno vissuto la concentrazione verso dimensioni più efficienti e qualitativamente evolute di una vasta serie di servizi locali: nella distribuzione del gas, nel servizio idrico integrato, nella gestione dei rifiuti, nel Tpl, nell’Ict, nei servizi sociali. Più di recente, anche negli appalti pubblici il legislatore ha avvertito la necessità di qualificare le stazioni appaltanti e le centrali di committenza per operare sui livelli quantitativi più elevati (attuali articoli 62 e 63 del Dlgs 36/2023).
Forse il legislatore dovrà riflettere sulla funzionalità degli uffici tributari comunali; mantenendo sì alle singole amministrazioni l’autonomia decisionale e il controllo strategico della propria fiscalità ma prevedendo, al contempo, che la stessa si debba operativamente dispiegare mediante l’efficace azione di soggetti sufficientemente strutturati, solidi ed articolati.
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